lunedì 29 novembre 2010

La neve e il mandarino

Nevica, quasi impercettibilmente.
Sembra che qualcuno, dall’alto, stia grattugiando cioccolato bianco, una polvere che scende giù come sfrangiata, batuffoli disciolti dai quali soltanto svolazzano minuscoli granelli diffusi, niente più.

Stavo leggendo un libro e ad un tratto mi è venuto in mente che, per accompagnare l’arrosto, avrei potuto fare una salsa al mandarino.
Allora ,come sempre in questi casi in cui un’idea mi salta in testa, ho lasciato il libro e mi sono buttata in cucina.
Ho versato un po’ di Brandy e un po’ di Porto in un pentolino che ha le stesse dimensioni di quelli che usavo quando ancora giocavo con le bambole!
Ho lasciato che si riducessero alla metà. Ho spremuto due mandarini,  filtrato il succo e l’ho versato nel pentolino; c’ho aggiunto un paio di cucchiai del sughetto dell’arrosto,  due cucchiaini radi di zucchero e ho lasciato che cominciasse a sobbollire un po’.
Quando anche questo si è ridotto, ho aggiunto una noce di burro.
Il burro, sciogliendosi, ha spessito la salsa che adesso è pronta.
Ha una testura e un colore interessante, un arancio caramellizzato...interessante davvero...del resto, è un invenzione, non ho seguito nessuna ricetta, sono andata a naso come faceva mia madre

Nemmeno mi ero accorta della neve d'altra parte quasi invisibile, qualche fiocco qua e là, saltellante in un cielo che sembra cenere sparsa così, a caso.
Il pranzo è pronto…io torno al mio libro.
Saluti e baci...

domenica 28 novembre 2010

"Come un'attrice persa sulla scena..."

http://www.youtube.com/watch?v=EtdTqiswQJM

C’è profumo di limone in casa.
Mentre fuori zampilla, perseverante, l’odore di neve, qui dentro l’ambiente si è saturato di primavera.
E non so perché, ma all’improvviso mi è tornato in mente Maiori, piccolo paese della costiera Amalfitana, situato nel Golfo di Salerno, sul mare e nel mare dato che anche dal mare può arrivare e partire, la spiaggia è lì e aspetta.

Sarà senz’altro l’odore di limone, così penetrante e aspro che l’ha catapultato alla mia mente.
Quanti giorni e quanta vita lasciata sulla sua spiaggia o nelle piastrelle colorate del lungomare…quanta gente accompagnata e conosciuta, quanti amici incontrati e perduti poi lungo la strada…

Sarà la ”Camminata dei limoni”, quell’istante che mi ha fatto tornare prepotentemente alla mente Maiori: è una specie di passeggiata, da Maiori a Minori o viceversa, una scalinata da percorrere lentamente, a piccoli passi, un sentiero aggrappato alla montagna che fa da cornice al mare.
Si chiama proprio così, la camminata dei limoni, perché in tutto il percorso s’intercalano gli alberi di limone, tanti, fiori bianchi che ti accompagnano quasi per mano.
E in mezzo alle foglie e ai fiori, agli stessi frutti quando la stagione lo permette e lo richiede, un sapore dolciastro di succo di limone ti spruzza letteralmente il cuore.
Perché la gente in mezzo a quei sassi che sono gradini, ancora vive con il sorriso e l’anima tra le mani e quando passi, in gruppo e da sola ,ti salutano e ti invitano a sedere fuori dalle loro case che sembrano grotte comparse dal niente.
E, come le stesse grotte, dal niente si sporgono mani con grandi caraffe piene di limonata, un liquido giallo che si spinge verso il verde con incredibili giochi di sfumature e che, ancor prima d’essere bevuto, ti lancia addosso il suo profumo aspro e dolce, come la terra dalla quale nasce.

Ho ricordi vivissimi di quei luoghi e di quella camminata in particolare.
Per anni ho accompagnato gruppi in Costiera Amalfitana, due quattro, anche più volte all’anno ed ogni volta era per me un rapporto d’amore rinnovato con quella terra e con la sua gente.

Mi ricordo di Francesco, il cameriere dell’Hotel Garden.
Non era bello Francesco: piccolo, magro, denti sporgenti e una massa di riccioli neri, neri come i suoi occhi che, quelli sì, erano belli perché da quel nero carbone usciva fuori, quasi scintilla nel silenzio, tutto il suo grido alla vita.
Si era innamorato di me Francesco o al meno così gli sembrava.
Ma io non di lui. Io che ho sempre giocato con l’amore, mi ero lasciata intenerire da quel ragazzo cresciuto che mi cantava sempre una canzone di Vecchioni, sempre la stessa  “...che non è più vicina né lontana, come un'attrice persa sulla scena..."
  
E mi diceva sempre, in macchina, correndo sulla panoramica verso Praiano e verso quella discoteca dove sotto i piedi c’era l’acqua del mare e ti dava persino le vertigini guardare in basso, mi diceva -quella sei tu, che giochi con me a fare l’attrice e mi prendi in giro…
Ed io che cercavo di spiegargli che non lo stavo prendendo in giro, ma che soltanto non c’era amore in me né per lui né per nessuno, che le cose andavano bene così, che non era momento per altre cose,che non s’innamorasse di me.
Quante volte gliel’avrò detto e ripetuto: non t’innamorare di me che ti puoi far male
Ma lui insisteva in quell’idea d’amore ed io premevo perché quell’ipotesi sfumasse.

Erano giorni belli, giorni vissuti nella consapevolezza del niente perché “ a vent’anni si è stupidi davvero…”, ma si ha vent’anni e il mondo e la vita integra tra le mani.
Me lo ritrovavo sempre dietro Francesco: quando col gruppo andavo ad Amalfi, sulla scalinata del Duomo che ha gradini alti che sembra che non arrivi mai in cima e quando sei su, guardando la piazza, ti senti come se tutto l’intorno fosse tuo.
Dalla porta della Chiesa lo vedevo, la sigaretta in bocca come un Humphrey Bogart di periferia, appoggiato al muro davanti al negozietto di spezie, guardava su facendo finta di guardare il cielo e poi con la mano mi chiamava.
O la sera, fuori dall’Hotel o in quella che sembrava la piccola Rambla del centro e che visto così, di notte, quasi da lontano, non sembrava neppure un paese sul mare, e mi diceva: “ Iliás -strascicando la esse e cambiando accento al mio nome- stamme a ssentí, sei come ‘navventura, Maronna mia…la tua vita e come ‘nu teatro, la maggior parte delle cose che dici nun le posso ‘ntènnere, parli difficile, pare ‘na filosofia pero…nun posso ‘sta luntano ‘e te”
Io ridevo perchè sembrava che stesse recitando le strofe di una canzone e lui s’arrabbiava. “ Me sfotti ” mi diceva.

Francesco è un nome tra tanti che sono un ricordo che si può raccontare o pensare di tanto in tanto e nonostante, lui come altri, non l’abbia mai creduto fino infondo, non ho mai preso in giro nessuno.
Altra cosa potrei dire della gente che con me a giocato a dadi, con me e con i miei bisogni di affetto, non di amore.
Adesso, cresciuta e con i cinquant’anni che suonano alla porta, mi rendo conto che le immagini di quel che uno proietta della sua vita, a volte altro non sono che i ritagli di un film inventato, spezzoni di poesia che si recita da soli e, inconsapevolmente ,si crede che intorno ci sia un coro a sorreggere le battute sbagliate, le virgole scordate nella lettura.

Lo rivedevo sempre Francesco quando tornavo a Maiori, la gente dei gruppi che accompagnavo era diversa ogni volta e, chissà, forse anch’io ero diversa ogni volta.
Un bel giorno decise di far finta di non riconoscermi e da quel giorno ci si incontrava come anime che si erano sfiorate per sbaglio e per correttezza, poi, avevano deciso che non si erano mai incontrate.
Quante necessità ci sono nell’animo umano, quanta incertezza e quanta paura forse e soprattutto dell’amore.
Io so soltanto che anche Francesco, come tanti e tante, mi hanno accompagnato per brevi, brevissimi tratti: poi, come spettri che non si è mai visto, se ne sono andati, sottovoce e in punta di piedi, così ,nello stesso modo in cui erano venuti, ognuno al suo delirio, ognuno cercando di ricordare il copione della propria vita.
Sono tutti spiragli, crepe nel muro che ti costruisci addosso giorno dopo giorno cercando di fabbricare su te stessa la tua casa, il rifugio al quale tornare quando le sere si fanno fredde e scure, quando s’accendono le luci dei lampioni e anche tu, come tutti ,hai bisogno di un cuscino dove lasciar cadere i tuoi sogni.
Saluti e baci...

venerdì 26 novembre 2010

"Vedi cara è difficile spiegare..."

Guardo il cielo scrivendo, con la paura che diventi tutto bianco e cominci a nevicare.
Non mi piace la neve, l’ho detto e ripetuto:nemmeno guardarla scendere, fiocco a fiocco, lenta, ballerina.
Non mi piace e punto. Io sono per l’estate, la neve mi mette il freddo addosso, mi sembra di sentirlo fin dentro l’anima.
Eppure, nonostante mi distragga da lei un sentimento estivo d’amore e di calore, sento il suo odore nell’aria quando sta per arrivare.
Lo dicevo a Marta stamattina… -per inciso dirò che con Marta il rapporto “epistolar-mail”è quotidiano-.
Ci scriviamo tutti i giorni, rincorrendo il tempo che ognuna di noi vive, raccontandoci le frazioni e gli istanti. A volte soltanto le cose belle, a volte le tristi e le belle, a volte soltanto sensazioni…
Ma tornando alla neve: l’odore della neve è un odore secco che sento nel naso, come una nebbiolina che si lascia annusare e, nonostante la neve sia acqua gelata, a me ha sempre dato l’impressione d’essere asciutta e assetata, un odore di piume che volano o bolle di sapone che se le tocchi ti scoppiano nella mano.
Non so spiegarlo, è vero, lo dicevo anche a Marta, forse è soltanto una sensazione che sento nell’aria.
Perché quando arriva la neve, sembra quasi che il mondo si prepari: il cielo si veste di bianco candido, come un mantello d’ermellino che cerca la sua tana, intorno tutto è silenzio sbiadito, quasi soffice da toccare, una coperta di lana appena comprata, piena di vapore che si sgrana nelle mani come un rosario di preghiere che non si ricordano più.
Anche la terra freme, come in un canto gregoriano, toni cupi in armonia col tempo.
Eppure, non mi piace.
L’andirivieni del silenzio mi fa come paura: è un abisso di suoni annientati, vibrazioni che non escono, andamento lento che si spande e cammina.
E i fiocchi di neve, quando scendono giù, sono come fantasmi, intuizioni illusorie, poeti stanchi che non scrivono versi, ma soltanto caricature degli stessi.
Non è una sensazione che mi fa star bene, al contrario: tutta questa distensione perfetta che sembra prepararsi per l’arrivo della neve, mi solleva in un frastuono disordinato, una confusione ostile che mi occupa e preoccupa.
Da piccola mi piaceva la neve, senza esagerare.
Andando a scuola, la mattina presto, quando tutto era ancora silenzio e perfezione, ricordo che mi toglievo i guanti, all’altezza della Villa De Nova, dopo la Pasticceria Torchiana, e con la mano raccoglievo mucchietti di neve dal muretto e la mangiavo. Che sapore amaro aveva la neve!
Allora non c’erano i problemi ambientali di adesso, la neve era acqua pulita dal cuore gelato e a quell’ora era intatta e integrale, una polvere compressa e totalmente naturale.
Mi ricordo che mi sembrava sempre come una fetta di pan carré ghiacciato, non per il sapore che mi lasciava, invece, nella bocca, un gusto rugginoso, ma per l’aspetto ed il colore, così compatto eppur farinoso…proprio come uscita da un sacco, farina immacolata.
Del resto, mia nonna diceva sempre ”Sotto la neve pane”, onorando le sue origini contadine: la neve copre la terra, mi diceva, come una copertina che protegge i semini del grano che poi cresceranno, forti e gialli, chicchi d’oro puro, l’estate che verrà. E mi diceva anche: se fai una buca e ti copri con la neve, sotto senti come un fuocherello che ti scalda…ma io, sinceramente, non c’ho mai provato.

Ma anche queste parole sono soltanto divagazioni, suggestioni da previsione meteorologica, niente di più perchè il cielo è scuro e blu e non si annusa ancora la neve che viene.
Anche se ogni piccola cosa fa sì che i ricordi corrano a comporsi di nuovo in un puzzle che sempre più si va completando,questo è vero.
Come se fosse un esercizio di memoria, attivo e presente, nell’architettura di quel che verrà.
Saluti e baci...

Katis&ili

Tira un vento freddo oggi, come previsto è arrivata la perturbazione dal nord, dal Polo Nord addirittura, come una rete trasparente di ghiaccio e neve da spargere su ogni cosa.
Oggi Marta, prima di uscire di casa, mi ha detto che cadevano i primi fiocchi su Milano -o Meda, non penso cambi molto- e mi ha preso sinceramente la nostalgia. Non certo perché mi piaccia la neve, no no, non mi piace per niente: io dico sempre che sono nata al nord per puro caso, ma che dentro ho un fuoco solare che brilla al sud, al sud di qualsiasi terra, di qualsiasi continente, di qualsiasi mondo, conosciuto o no.
Però, quasi riuscivo, nella distanza, a vedere quei fiocchi di neve volare e poi cadere depositandosi al suolo.
Mi sono venuti in mente giorni lontani, giorni di questi anni che dopo i venti corrono come frecce impazzite lanciate con rabbia dall’arco della vita: un giorno nel cortile, con mia sorella.
Non sono molti i ricordi della mia infanzia che posso condividere con la Katis, eravamo tanto diverse ed avevamo differenti necessità che forse, queste stesse differenze, facevano sì che ci si incontrasse poco e quando succedeva erano spesso più scontri che incontri.

Però lei, nonostante tutto, è una di quelle persone che c’è sempre stata quando ho avuto bisogno di un abbraccio ,di carezze o di soldi, inutile negarlo!, lei è sempre stata lì, paladino nel tempo e custode-guardiana dei miei errori.
Mi piace pensare che non lo faccia soltanto perché è mia sorella, ma invece perché ama di me la persona, a prescindere dai vincoli familiari e di sangue.
E sono sicura che è così perché lei ha un cuore grande, come un cuscino di piume d’oca dove tutti o tanti si accucciano a dormire. Anch’io.

Di quel giorno -tornando a monte o a valle o dove sia più pratico!-, ricordo i contorni, ricordo il freddo pungente, ricordo guanti rossi di quelli con un solo dito con una stella sopra, mi pare, simile ai fiori di ghiaccio sui vetri delle finestre antiche.
Ricordo bene il cortile, grande, vuoto, pieno di neve, totalmente bianco e immacolato nel suo pallore solo verso il fondo dov’era disabitato praticamente…chi ci viveva? La Pina con la sua famiglia…no, a quei tempi, quando eravamo bambine, le case in fondo al cortile non erano abitate, o forse sì, ma non me ne ricordo…
Sta di fatto che in fondo la neve era alta, intatta, ancora compatta e quasi spumosa: un’immensa distesa di latte condensato, malleabile, come sabbia in una spiaggia smorta, vergine e pura.
Uno spazio pulito, tenero, da coccolare tra le dita e poi armonizzare figure che possono sembrare vive e fragili nella loro immobilità.
Questo era quello che volevamo fare: un pupazzo di neve, con una pancia piena e dura, una faccia divertente e occhi e bocca statici, senza movimento alcuno.

Ricordo che cominciammo a trasportare neve dal fondo verso lo spiazzo dietro casa dove gli oleandri erano carichi e già stanchi di portarsi addosso questo carico d’acqua ghiacciata e le rose, coperte di cellophane, ci guardavano trasudando nel tepore un profumo che già non si spandeva, solo un’orma fugace della stagione passata.
Trascinavamo la neve in una cassetta della frutta e pesava, pesava molto; poi la si rovesciava nel posto che si era scelto…e si tornava al fondo a caricare.
Ovviamente, quando decidemmo che la neve era sufficiente, la trovammo ghiacciata, assiderata dallo stesso freddo che, goccia a goccia, la componeva.
Probabilmente litigammo a quel punto, lanciandoci addosso, l’una all’altra, le colpe: dovevi cominciare a fare il pupazzo…perché non l’hai cominciato te? Perché io sono la maggiore…e a me che me ne frega se sei la maggiore…
Come sempre, ci si arrabbiava e poi arrivava mia madre e ci portava in casa e tutto finiva fino alla prossima volta.

Solo più tardi, più grandicelle, siamo diventate sorelle: allora eravamo due sconosciute che avevano vissuto l‘infanzia separate per questo o quel motivo, due persone che non si conoscevano e che, ripeto, erano tanto diverse tra loro da sembrare semi di diversi sacchi!
Però, quando ho avuto bisogno di lei, lei, la Katis,c’è stata sempre…ancora adesso, a volte, vorrei chiederle scusa per tutte le volte che le ho tirato le trecce, che le ho detto che era una “molliccia”, che mi faceva perdere quando si giocava a “castellone”…
Vorrei chiederle scusa per tutti gli errori che ha dovuto subire, errori miei, errori di una vita magari troppo disordinata.
Le ho chiesto scusa, ma c’è in me come un pudore: a volte nemmeno m’accorgevo di sbagliare, vivevo in fretta e senza tregua, non frenavo mai, correvo sempre verso questo o quello.
Poi tornavo a casa, a volte sì a volte no, a leccarmi le ferite come un gatto domestico e al tempo stesso selvatico e indomato e lei era sempre lì ad aspettarmi.

Quando ho saputo,giorni fa, che legge il blog, ho pianto. Di felicità perché finalmente, senza pensarci su, posso davvero regalarle il cuore, quel cuore di vetro soffiato che ho dentro il petto e che a volte faccio finta che sia più freddo e polare di quanto in realtà è.
Ma lei lo sa come sono e quel che sono, conosce le mie imperfezioni, ma anche la mia fermezza e resistenza…e mi vuole bene così.
Un’altra volta ancora chiedo scusa, a lei perché spesso le ho fatto del male, consapevolmente o no: la sua risposta è stata sempre una mano tesa e per questo, e per altro ancora, ti voglio tanto bene Katis.
Saluti e baci...

El "Cole", un sogno

Un giorno José mi raccontò un sogno o una favola che poi finisce per avere lo stesso significato.
C’eravamo conosciuti da poco, tutto stava ancora nell’aria, senza consapevolezza, come un’immagine sfumata.
Sono passati già diversi anni, ma ancora me lo ripeto a volte…
Il sogno diceva così:

“ In un luogo lontano, un paradiso forse o la terra di nessuno, là dove il vento curva veloce e senza frenare scompare, dove ci sono nuvole incandescenti e la luce è un gioiello di brillanti e opale, oltre l’universo conosciuto, un po’ più in là insomma…c’è un luogo dove vivono le essenze che ancora non sono donne e uomini, ma soltanto aria e luce che si fonde con l’immenso divenire.
Quel posto che io chiamo il “Cole”, il Collegio, è magico e sospeso nel niente perché il futuro è niente, ma lì, senza percezione, riesci a capire ogni cosa.
E proprio nel Cole vivevamo, tu ed io, senza mai toccarci, senza mai vederci, ma toccandoci e vedendoci continuamente senza separarci mai. Si viveva bene nel Cole, senza paura, senza domani perché il domani era oggi ed era ieri, in un costante stato di benessere…eravamo tanto felici…
Lì ognuno viaggiava, andava e veniva, da un angolo all’altro senza il pesante bagaglio della consistenza umana, senza corpo: soltanto spiriti che s’incontravano, si riconoscevano e si salutavano.
Senza conoscere l’amore, quello umano che a volte fa soffrire, ci si amava perché quello era il sentimento che ci toccava, ad ognuno di noi, senza differenze.
E nemmeno l’odio né la violenza conoscevamo, non ce n'era bisogno.
Niente turbava la pace del Cole perché dentro vivevano solo gli spiriti di coloro che, chissà, magari un giorno, sarebbero arrivati qui, sulla terra, per essere assassini o santi, non so…
Nel Cole, invece, la vita era un istante e un istante era la vita e nessuno pensava di poter o dover un giorno lasciare quella eterna serenità per cambiare il suo stato d’aria, inconsistente e pura, per un corpo che può soffrire, può star male e poi morire, nessuno ci pensava.

Ma un giorno, arrivò nel Cole un’essenza che già era stato uomo sulla terra, più sporca delle altre, meno luminosa perché aveva visto e conosciuto il mondo, quello stesso che noi vedevamo da lassù o da qualche angolo remoto perduto nel niente.
E tu ti allontanasti un momento e mi dicesti con quella voce che sembrava il soffio del vento :
 -Vado a vedere cosa succede, poi torno”
Non so dire quanto tempo passò, nel Cole il tempo non lo batte un orologio né una campana, il tempo passa e va e poi ritorna e ricomincia a passare e correre per, poi, tornare senza che io o nessuno potesse rendersi conto di quanto di quel tempo fosse passato.
E tornasti, col fiato sospeso, agitata e felice.
 -È stato sulla terra -mi dicesti-, è tornato dalla terra, ci puoi credere? Non avevo mai parlato con qualcuno che ci fosse stato davvero…e dice cose, dice cose bellissime…dice di pozze immense che gli uomini chiamano mare…dice di terre che si alzano dall’orizzonte e che chiamano montagne e poi altre,più piccole, che chiamano colline…dice che ci sono posti dove pezzi scuri di un materiale profumato che chiamano legno, formano alberi, così li chiamano, alti alti che possono quasi toccare il cielo…e poi c‘è una cosa, una persona insomma, che chiamano madre e che sa darti un amore che qui non si conosce, che ti dà la vita mille e mille volte proteggendo la tua…non è meraviglioso? E ci sono tanti uomini che corrono e parlano…persino si toccano e si vedono…”
 -Anche noi ci tocchiamo e ci vediamo, non è così?” Ti dissi io,ma tu già non mi ascoltavi.
Passavi il tempo, da quel momento che mi sembrava diventato davvero e all’improvviso tangibile, come qui, niente di diverso, con quell’essere che ancora non so come chiamavo, se essenza impura o uomo o chissà che…allora solo m’importavi tu che passavi il tempo senza tempo con lui e non più con me…e poi tornavi e mi dicevi:
 -Devo andare, devo andare sulla terra…non vedi quante cose ci sono lì? Le montagne e il mare, la gente…persino i fiori…sai cosa sono i fiori? -mi chiedevi
E senza aspettare che ti rispondessi cominciavi a raccontarmi cos’erano i fiori e di nuovo cos’era il mare. Cercavi di spiegarmi anche cosa fosse l’amore e io ti domandavo:
 -Non ti basta quel che abbiamo qui? Non ti basto io?

E tu mi guardavi, sapevo che mi guardavi anche se non ti potevo vedere, e avevi quell’aria triste di chi deve dire ”No, non mi basta”.
Invece mi rispondevi:
 -Non è che non mi basti, ma ho bisogno di vedere, di conoscere, si può viaggiare laggiù e vedere cose nuove e diverse, non come qui…"

S’interrompeva sempre il racconto del sogno quando José arrivava a questo punto, si leggeva come un dolore remoto nell’intonazione del suo parlare.
Ed io mi vedevo bambina, correre e cercare, sempre alla scoperta di qualcosa, incredibilmente curiosa.
E poi più adulta con la stessa voglia d’imparare, di viaggiare, di percorrere a piedi o come fosse il mondo.
Mi ritrovavo nell’immagine che lui dava di quell’essenza pura che, teoricamente, avrei dovuto essere io: la stessa voglia di andare, la stessa smania di conoscere il mondo e la gente e da questa imparare, lo stesso desiderio di viaggiare senza limiti o frontiere, senza nessuno a dirti dove e quando, sempre alla ricerca di un qualcosa, mai stanca di camminare…
E così poi José continuava a raccontare:

“Insomma, un bel giorno -e ti spiego così il tempo perché già neppure mi ricordo cos’era realmente lassù il tempo- arrivasti e con un’espressione seria, senza quel sorriso che da lontano, sempre, mi diceva che stavi arrivando, mi dicesti:
 -Ho deciso già, me ne vado, vado sulla terra e quel che dev’essere sarà…
 -Non puoi andare perché così hai deciso -ti dissi-, lo sai che devi chiedere un corpo e poi…cosa farai là sulla terra? E cosa farò io quassù?
 -Non lo so -mi rispondesti triste-. So soltanto che lì devo andare…perché non vieni anche tu?
Per un momento pensai che sì, dovevo dirti che sarei andato con te, sulla terra o dove avresti voluto… ma non ne fui capace: lo sai che ancora adesso mi fa paura l’imprevisto, mi piace e mi spaventa allo stesso tempo.
E poi io non ero e non sono curioso, io m’accontento di quel che conosco e dell’amore che sentivo da te e per te.
Così, in un dato momento, senza che io sapessi cosa stessi facendo perché già tu non eri un’essenza, il solo pensare nel corpo fatto di carne ed emozioni, ti aveva trasformato in un essere che io non potevo comprendere come prima, venisti e mi dicesti:
 -È tutto fatto, parto domani
 -E quand’è domani? -ti chiesi angosciato
 -Domani è adesso, sono pronta…mi aspettano, devo andare…
Ti vidi dissolverti ed io, impacciato, era come se non potessi far niente per fermarti. Vidi come una crepa aprirsi e una goccia di sangue cadere giù.
Poi mi spiegarono che era il sangue della tua vita, il parto e il dolore che aspettava là sulla terra.
E ti aspettava una madre, mi dissero, quell’amore che avresti tanto voluto conoscere e che adesso era lì, vicino a te.

A questo punto normalmente ero io quella che interrompeva il racconto.
 -Perché non sei venuto con me? -domandavo sempre
E José sempre mi rispondeva quello che già sapevo, che siamo così diversi, così diversi…e che poi ognuno corre verso il proprio destino e non è giusto che nessuno s’intrometta.
E continuava così il sogno:

“Avevo chiesto almeno di guardarti da lassù, ma mi dissero che non era compito mio sorvegliare e guardare il tuo vivere.
Da allora il tempo diventò davvero pesante, non passava mai e quando passava tornava più carico di noia e di tristezza, molto più fastidioso e massiccio da trasportare.
Ero diventato debole e leggero, nessuno mi poteva mai incontrare: cercavo sempre il modo di raggiungerti col pensiero e non potevo e gli sforzi per riuscirci erano così immensi che mi lasciavano sfinito al bordo di quello che era il cammino per la terra.
Allora, decisi di seguirti, chiesi un corpo e me lo concessero.
Però, mi dissero, non sarei stato vicino a te, avrei dovuto cercarti: questo era il compito che m’assegnarono, cercarti e trovarti senza l’aiuto di nessun cielo, non sapendo nemmeno che ti stavo cercando perché, dalla mia caduta sulla terra, di te mi sarei completamente dimenticato.
E tu di me del resto, anche tu già te n’eri dimenticata.
Ti avrei riconosciuto, mi dissero, con la sola forza dell’amore umano, quell’amore che da lassù mi faceva tanta paura…
E anch’io provai l’amore di una madre, alla fine, chissà, è valsa la pena fare quel salto…
Ma ci sono voluti quarantaquattro per ritrovarti e tutti i se, adesso che ti ho trovato, non valgono niente.
Ti ricordi? Quando ci siamo conosciuti ti ho detto che mi sembrava di conoscerti da sempre: è per questo sai, ti conoscevo dal Cole…”

E qui finisce il sogno e comincia la vita.
È vero, José sempre mi ripete ”Nos conocemos desde el Cole” -ci conosciamo dal Collegio- e forse è vero: quell’incredibile che ci unisce e che ci rende quasi sempre uno, un circolo formato dai capi di quel filo che si sono annodati insieme, a volte penso sia frutto dell’eternità, a volte penso che sia soltanto un sogno.
Ma ci sono cose in questo sogno raccontate all’inizio della nostra storia quando lui, José, non poteva sapere che io fossi davvero così, curiosona e pettegola, “…sempre pronta a masticare il mondo…” : sono tutte sfumature che ha imparato a distinguere poi, col tempo. All‘inizio eravamo come corpi che avevano perso la loro ombra e la cercavano.
Comunque, sia verità o sia soltanto un sogno, per me è un regalo grandissimo, nessuno mi aveva mai regalato una storia così pensata per me e su di me...o soltanto mia sorella quando ascoltava le storie del gigante Gelsomino e mi seguiva il gioco…ma, dopotutto, anche quella è una storia d’amore.
Saluti e baci...

giovedì 25 novembre 2010

Odisseo

http://www.youtube.com/watch?v=-MtMsu7nRkE

Ho scelto d’iniziare con questa canzone perché volevo fare un omaggio ad un amico, uno di quelli che ti seguono e sembrano guardarti o spiare i tuoi passi da lontano, uno di quelli che non hai mai visto in faccia, ma che pare conosca tutte le rughe che hai, intorno agli occhi o alle labbra per aver troppo pianto o troppo sorriso.
Uno di quelli che sembra distante, ma è più vicino di quelli vicini.
Perché un libro o una canzone sono stati i miei amici di sempre, la compagnia silente di giorni persi nell’ombra di un ricordo o nelle sfaccettature del presente.
E questi libri e queste canzoni scritte da altri, questi amici lontani, vacillano se tu ti senti perduta, sono rocce se tu ti senti sicura, sono gracili fotografie in un album di ritagli.
Sono loro, gli amici sconosciuti che parlano in linee morbide su pagine che una volta erano bianche, che ispirano i tuoi pensieri, che coprono le tue incertezze, che ti dicono come e quando altri esseri umani, tanto diversi o perfettamente uguali a te, hanno avuto e vissuto gli stessi dubbi che seguono, stanchi e perversi, la storia d’ogni uomo pensante.
E sono quegli stessi amici che attraverso le canzoni cantano con la loro bocca la tua storia…è strano, no?
È incredibile ritrovarsi nelle strofe di altri, nelle frasi ritmate di un ritornello, nella melodia di un altro suono che pensavi appartenesse a chi l’ha scritto: invece no.
Come figli svezzati, le canzoni ed i libri volano via, non sono più tuoi, ma di tutti quelli che hanno voglia di leggere, d’ascoltare, di condividere.
Per questo e per molto altro considero il Guccio un amico, un amico leale che probabilmente non può tradire perché il rapporto è di quelli che non si toccano, che soltanto si respirano con i polmoni di un’emozione.
Oggi ho scelto questa canzone, “Odisseo”, perché dal primo momento in cui incontrai Ulisse sul mio cammino, anni ed anni fa studiando Omero e la sua storia triste di lacrime ed inganni, mi accorsi che lui era me, che io ero lui nel cammino e nella storia del mondo che si ripete e si intreccia.
Così, il suo destino di navigante verso un desiderio sconosciuto, è stato il mio per anni ed anni, quando sulle ali di un aereo navigavo i mille cieli infiniti cercando un destino conosciuto o sconosciuto, la differenza è poca. L’uguaglianza sta sempre nel cercare, nella ricerca costante di un infinito che sia il più prossimo possibile, che sia una certezza nella vacuità di quello che sembra non possiamo sapere.
O su un treno varcando stazioni, campi arati e pianure, valichi invalicabili e montagne…fino ad arrivare al mare,un mare che sembrava aspettare il mio arrivo o il mio ritorno e che cantava con le onde sbattute sugli scogli la loro e la mia storia.

"Ma nel futuro trame di passato si uniscono a brandelli di presente,
ti esalta l’acqua e al gusto del salato brucia la mente
e ad ogni viaggio reinventarsi un mito a ogni incontro ridisegnare il mondo
e perdersi nel gusto del proibito sempre più in fondo..."


Ulisse, anche lui, invidiava l’infinito da conoscere, accarezzava e sospirava il sogno dell’impossibile perché era l’uomo, l’uomo che cerca e non trova, l’uomo che va percorrendo la sua strada a caccia di un’altra strada dove trovar soluzione al suo vivere.
Però, sempre si torna al proprio esistere, sempre si ritrova il percorso, la via giusta verso una nuova prospettiva che molte volte è l’antica, quella da seguire.
E io ho trovato il mio posto, qui, in un paesino nel fronte occidentale dell’Europa, tra montagne, pigne e faggi e mandorli e lontano dal mare.
Ho trovato la stazione d’arrivo, quella dalla quale, forse, sono partita un giorno, chissà, e dalla quale  non ho voglia di ripartire anche se a volte è difficile poter soltanto ricordare le facce di chi ami e che sono lontani, il caffè della mattina bevuto in piedi, in un bar nella piazza, caldo e forte mentre senti da lontano l'urlo del mare…la pizza con quattro amici a cui raccontare i tuoi pensieri senza cercare le parole.
Ma tante volte ho detto e scritto che quel che ho lasciato è molto meno di quel che ho incontrato, ed è vero, non lo dico perché chi lo legga si senta tranquillo,no. Lo dico con la certezza della condivisione quotidiana…anche Ulisse, alla fine, è tornato nella sua Itaca perché lì c’era chi l’aspettava.
Saluti e baci....

Lucio Battisti - Io vorrei... non vorrei... ma se vuoi

"Vorrei,non vorrei,ma se puoi..."

Vorrei riuscire oggi a raccontare cose belle: come i fiori di gelo che il ghiaccio, durante la notte, ha ricamato con grazia e costanza, sulle foglie già scure, spezzate dai passi e dal freddo; come il cielo chiaro, senza nuvole, che copre come un tetto il mondo sottostante, la luce che emana dal sole che nasce dietro le case, sfiorando con i suoi raggi obliqui il bosco e le colline.
Cose belle come l’odore che lascia il freddo, frizzante ed evanescente, che si contrappone all’odore spesso della legna bruciata nei camini; come l’aria immota che, nonostante il sole, ha odore di neve, bianca e pallida, che presto si poserà qual beata chimera tra la terra ed il cielo.

Invece, dolori forti mi accompagnano anche oggi, come spasmi nelle ossa, zoccoli pesanti che portano in giro un corpo stanco, direi stufo di star male.
Ma anche questo serve a far sì che i giorni e le notti spesso insonni acquistino il loro valore, come ogni cosa che nasce e cresce sotto questo cielo.
D’altra parte, è pur vero che il dolore offusca la mente, non metaforicamente, ma con reale aggressione: crea come una cappa di sudore stillante, un mantello che senza considerazione alcuna copre ogni cosa, ogni gesto, ogni azione che ti proponi fare, tutto assiste e chiede permesso al dolore.
Re, sovrano del corpo,  s’appropria della mente in ugual misura e,si sa, se la mente non risponde, il corpo vale poco, e viceversa, se la mente accude alla chiamata, il corpo a volte si dimentica dell’appuntamento: e siamo sempre lì, nello stesso groviglio d’intenzioni, la mente senza il corpo ed il corpo senza la mente, sono due componenti che, agendo in solitario, possono far gran danni.
Spero soltanto di tener quella forza necessaria che, dominando l’impulso del dolore, mi permetta controllare almeno parzialmente gli atti e i pensieri di questi due gigolò che mi porto a spasso, la mia mente ed il mio corpo, epicurei nel vivere e indomabili guerrieri al tempo stesso.

Insomma, mi spiace non essere spesso una piacevole compagnia, nemmeno io, del resto, sto ben accompagnata in questi giorni: chiedo venia, perdono e carezze, anche se da lontano, carezze che mi aiutino a non cadere continuamente, che mi guidino nel cammino se la forza manca ed ho bisogno di un bastone.
Non mi vergogno, chiedo aiuto a volte senza intromettermi troppo, cercando di non disturbare perché ognuno vive nella propria vita il proprio dolore e non è giusto caricare sugli altri il bagaglio che è tuo.
Nonostante, rimango qui a far dei miei giorni una cronaca vera, senza bugie e con la verità nelle dita, scrivendo quel che sento e quel che invece vorrei sentire, ma con la certezza di non essere mai totalmente sola.
Saluti e baci….

mercoledì 24 novembre 2010

"E tu scrivimi scrivimi se ti viene la voglia..."

Inciampando di nuovo nel filo che lega insieme i miei pensieri, ci riprovo a tenervi compagnia, a sollevare la stanchezza che in questi giorni mi porto addosso.
Non sempre riesco ad essere fedele all’appuntamento con le mie stesse parole, qualche volta mi perdo in altre cose e la mente divaga.
Sono giorni strani, quasi pesanti da portare in giro. Le ossa mi fanno male, il corpo non sempre risponde ai mille e mille stimoli che gli lancio.
Sarà questa nuova stagione che, ancora praticamente lontana, già comincia a marcare il passo dei miei piedi, inizia a proiettare razzi di silenzio bianco in quello che dovrebbe essere il mio spazio quotidiano di colore.

Questo blog mi sta aiutando ad acquistare certezze, non tanto per l’approvazione o disapprovazione di altri, no: è come se mi stessi convincendo di potercela fare, di essere capace, un giorno di questi, di raccogliere in una cartelletta virtuale tutti i racconti e le storie che stanno lì, docili ma intrepidi nel computer, chiedendomi continuamente ”Quando ci lascerai volare via?”.
Pensavo di aver bisogno che altri mi dicessero se valeva o no la pena che quel che scrivo vedesse la luce.
Invece, scrivendo quasi quotidianamente, mi sono resa conto che è solo questo quel che voglio, scrivere.
Non penso quasi più se le mie storie possono essere anche le storie di altri; non soffermo il pensiero sul come far sì che quel che scrivo piaccia perché sarebbe come voler sradicare una pianta dall’angolo privato dove è nata. Sarebbe come se io cercassi di sfuggire ai miei bisogni e necessità per soddisfare quelle di altri.
Quindi, da un po’ scrivo per il piacere di farlo, non misuro le parole che davvero, adesso, escono e volano via senza giustificazioni o atti che cerchino di cambiarle.
Mi è successo, a volte, prima di scrivere, di cercare con ansia le parole che potessero spiegare.
Ora no, lascio che partano da dentro, che prendano questo o quel treno senza direzione prestabilita.
È quello che a molti piacerebbe fare, me compresa: arrivare in un aeroporto, avere abbastanza soldi in tasca e scegliere se non il primo volo, almeno quello che più ispira fantasie, in questo o in quell’altro emisfero, senza nessun’altra ragione che non sia la voglia di andare.
Così succede con le mie parole: vanno e vengono senza frontiere, senza nodi che le tengano unite o costrette in una situazione.
Soltanto sensazioni, attimi che scivolano via lasciando soltanto una scia leggera.
Ogni attimo è un mondo a se stante, con i suoi dati e le sue ragioni, solitario nonostante l’unione con gli altri momenti.

Niente altro da aggiungere. Il giorno, insieme alle parole, nasce e scorre seguendo il suo cammino, l’orizzonte cambia i suoi fantasmi rosa per altri di mille differenti sfumature; la luna ancora vigila nonostante la luce, resiste al desiderio di dormire lasciando che la sua immagine effimera si sfumi nel bagliore della luminosità, naturalmente.
Sono uscita con Ghiaccio, ho percorso i cento passi dentro il bosco, ora accendo candele e incenso per augurarmi, io sola, un buongiorno.
Saluti e baci...

domenica 21 novembre 2010

Sarà che l’infinito è più vicino a volte di quel che possiamo sospettare, sarà che con un dito si riesce persino a toccarlo se la serenità dell’anima coincide e si congiunge con questo cielo…ma oggi la luna è più vicina di quel che ci si potrebbe aspettare.
È una grossa faccia d’acciaio o, come scrivevo stamattina a Marta, un’ancora lucente lasciata in mezzo al mare, così piena ed estrema, gonfia di luce eterna, un faro che avvisa i naviganti.
Le nuvole sono soltanto graffiature iridescenti, bianche nel buio, soltanto lamine di stupore nella notte quasi finita.

La gioia di scrivere, a volte, inciampa nel foglio bianco.
Chi scrive sa che la pagina immacolata risulta essere come un terreno da seminare, zolle di terra che si lasciano spostare ed educare.
Ma, a volte, il campo si copre d’alabastro, irriducibile e inclemente, anche se malleabile: sarebbe bello riuscire sempre a lavorare la roccia piena di sfumature rosa e costruirne vasi destinati a contenere unguenti ed oli profumati per alleviare dolori e ferite. Non sempre si può.
A volte il campo si copre improvvisamente di neve, fiocchi che cadono lenti come molliche di pane danzanti nella furia della tempesta; piccole dita bianche che corrono sulle corde della terra e decidono per te quale musica suonare; gocce di latte che inzuppano le tue parole e le sciolgono come zucchero.
Altre volte il campo si riempie di erbe sleali che aggrediscono ogni cosa, di gramigna maliziosa che lascia dietro di sé il suo fusto strisciante e selvaggio che amalgama ogni idea.
Altre ancora la pioggia lava via le intuizioni, scende retta, lo schieramento di un esercito mascherato e beffardo che cancella i possibili pensieri.
Quando succede, si rimane vuoti in attesa, in attesa di un qualcosa, di un qualcuno che ti dia una mano e timbri i momenti.
Non è facile stare davanti al foglio bianco: in sé trascina il tutto e il niente.
Allora, la mente saggia firma un trattato e si coalizza, promette fiumi d’inchiostro e parole che incuriosiscono la vanità del bianco, lusinga il vuoto vaporizzando speranze.
Il risultato, a volte, è il componimento, più o meno letterario, ma pur sempre una composizione che, attraversando con le parole le idee, riesce a seminare il campo.

Quando invece, nonostante la certezza del volere, il cratere rimane vuoto nella totale assenza di stimoli, il terreno ti guarda provocante e ride, continua a lasciare che cada la neve, che scenda la pioggia, che la gramigna generi figlie figli e s’impossessi dell‘essenziale.
Quindi, ogni linea che avresti potuto tracciare, ogni parola che avrebbe potuto navigare bagnata di inchiostro verso pensieri potenziali, ogni schizzo di idea che avrebbe potuto creare un concetto, rimane lì, chiusa nella punta della penna o inchiodata alla plastica della tastiera non riuscendo a comporre con l’alfabeto vocaboli, frasi… insomma, una fioritura che valga il prezzo a pagare!
Quando succede, provi a discorrere e ragionare col foglio bianco su come sarebbe se stamattina non avessi idee da condividere!
Saluti e baci... 

sabato 20 novembre 2010

Stamattina il cielo appare come un enorme ventaglio di piume di pavone che il vento leggero sembra riuscire a muovere formando onde galleggianti tra il blu della notte e l’azzurro quasi argenteo delle nuvole.
Un anfiteatro di seta fluttuante che mi ricorda la messa in scena de “ La tempesta ” shakespeariana dove le ondine si muovono e correndo spostano il drappo blu che rappresenta il mare.
Il cielo ed il mare, puntualmente, a me sembrano figli di una stessa grandezza e siccome adesso non posso soffermarmi a guardare l’acqua, mi ritrovo spesso col naso all’insù cercando nel cielo quel che normalmente sulla terra non vedo.
Quell’infinita cavità eterea alla quale noi stessi attribuiamo un colore, mi perde, mi assimila in sé quando alzo gli occhi e invento storie che sono o mai saranno.

Ieri il sospetto della nebbia è durato soltanto un soffio di vento, lo stesso che ce l’ha fatta a portarsela via con sé, non so dove, nemmeno me lo chiedo perché volgo il pensiero al cielo azzurro nel quale la nebbia si è dispersa e che ha saputo ricreare in me un’armonia interiore.
È vero che mi perdo, scrivendo, in metafore e pezzi bucolici, rivendico un passato contadino che fino a poco tempo fa soltanto conoscevo nell’incoscienza.
Ma da quando vivo qui, il contatto diretto con gli elementi mi costringe quasi a sentirmi parte di un tutto che per altri non significa niente e che per me, invece, rappresenta l’essenza dei giorni e della vita stessa.
Non riesco a staccare le mie emozioni, le sensazioni ed il vivere, dalla lentezza dei cicli naturali. Sto in perfetta simbiosi con quel che è il ritmo sacro delle stagioni, con il passare del tempo cadenzato dai colori e dagli eventi che, lungi dall’essere soltanto atmosferici, scrivono insieme a me quel che succede o succederà.
Mi sento in equilibrio, come una coralità di suoni e d’azioni che concordano totalmente con il mio esistere e anche le contraddizioni, le dissonanze o stonature, si fondono insieme e non rompono la proporzione musicale, anzi, ne rialzano il movimento.
Non pretendo che tutti lo capiscano, è normale che ognuno di noi viva la propria vita secondo certe andature e modulazioni che gli appartengono: le mie, rispettano i tempi prestabiliti, le alternanze e i cicli e si lasciano frammentare in un ordine che, spesso, si fonde e si confonde con il processo naturale.
Sarà per questo che passo i giorni interrogando cielo e terra, per questo inciampo nell’inconsistenza delle foglie cadute o riesco a sentire il tempo che cambia .Per questo o per altro ancora, non so.
Oggi, insomma, l’assenza quasi totale del dolore, mi avvicina a pensieri ed intuizioni positive.
Non chiedo niente alla vita, quel che ho è quanto mi appartiene, per un attimo o per un tempo infinito.
Anche da me stessa sto imparando a non pretendere più di quanto possa dare e darmi.
In tutti i giorni che ho vissuto, mi sono offerta sempre sforzi sgarbati per cercare nell’azione il senso alle cose: adesso presto ascolto al moto del mio corpo, alla sua intuizione e orientazione anche se, ancora a volte, il cardine prepotente e razionale torna fuori e schiaffeggia i vecchi miti.
Ma, comunque, cerco di mantenermi in equilibrio, ogni giorno è un filo sospeso in alto ed io un funambulo che prova a raggiungere l’altro capo, con le braccia aperte per raddrizzarsi quando un inaspettato soffio di vento lo spinge e può cadere. A volte ci riesco, a volte cado nel niente, ma nessuna caduta, ancora,mi ha impedito di rialzarmi e continuare il gioco.

Dalla finestra guardo la strada deserta, soltanto ombre sotto la luce dei lampioni e un venticello diafano ed elegante che può soltanto spolverare quel che resta della notte.
Oggi, questo giorno ancora infantile ed innocuo, predice un futuro prossimo intellegibile e cristallino, sole e brezza evanescente, come un quadro dipinto ingenuamente coi colori dell’imprevisto.
Ed è, senza dubbio, un giorno nuovo…
Saluti e baci...

venerdì 19 novembre 2010

"...C'è come una ragnatela immensa che scende non si sa da dove e appanna e riempie di fili invisibili ogni cosa...di nuovo la nebbia accompagnata da una pioggia sottile, fili di niente che s'incontrano con l'asfalto umido e tessono o lavorano all'uncinetto una trama impossibile da dire...che roba...mi aspettavo per oggi la pioggia, ma non anche la nebbia...mi é venuto in mente un castello perso nella brughera di qualche luogo e la nebbia che lo nasconde all'inquietudine mia o di chissà chi..."

Ecco, questa è la sensazione che mi ha provocato oggi spostare la tenda del salone e guardare fuori, atto quotidiano che accompagna impavido i miei risvegli davanti ad una tazza di caffé che oggi sa di liquirizia..o forse è la mia bocca che ancora mastica il sapore dell'efferalgan che ho preso ieri a mani piene.
Strana convivenza la mia con l'efferalgan, una sorta di partita a carte tra me ed il paracetamolo che, unito agli altri farmaci che mi seguono da anni scandendo, all'ora prestabilita, la mia necessità, diventa un compagno fidato. Sono contenta quando bara giocando perché nel suo inganno, si perde e scivola via il mio dolore e di questo io non posso che essergliene grata.
Ieri c'è stata una specie di ricaduta che mi ha svegliato spaventata e piena di dolore. E proprio al risveglio, quasi nel sonno ancora, mi dicevo " No, di nuovo per la stessa strada no, non ci voglio più passare..."
Poi ho sceso le scale, come ho potuto, aggrappandomi alla ringhiera come ci si affida ad una speranza, e ho cercato di sedermi e di scrivere, ma invano. Appena sono stata capace di scrivere le quattro parole quotidiane a Marta, poi mi ha assalito un senso di disperazione che vive in completa armonia e concubinaggio col dolore -sono fatti l'uno per l'altra!- ed ho dovuto cedere. È rimasta in me soltanto la consapevolezza di star male, di non poter appoggiare a terra la gamba, di cercare qualche modo di star seduta senza sentire, come una fitta al cuore, quella sofferenza che avevo cercato di dimenticare.
Il dolore è quella piovra che ti aggrappa e non ti lascia libera di muoverti, di agire, ma nemmeno di pensare perchè pare che tutto di te sia costretto a dedicarsi a questa certezza fisica e mentale che non si stacca.
È come quando ti ossessiona un'idea e non puoi far altra cosa che dedicarle tempo, anima e sforzo.
Ma il dolore non è un'idea purtroppo, nemmeno con fatica ciclopica puoi scacciarlo da te: domina e ti domina, costringe e ti costringe, assorbe e ti assorbe.
La paura, ieri, era di essere caduta di nuovo e senza capirne il perchè. Di essere tornata all'improvviso indietro dentro un'angoscia che pensavo o speravo non dovessi più condividere con me stessa.
Poi è arrivato lui, il paracetamolo, e mi sono assopita in lui e con lui dentro un altro mondo fatto di dormiveglia, fatto di sbadigli, ma che, almeno per un po', si è portato via il dolore.
Ho pianto e gridato senza urlare perchè volevo che sapesse che avevo già pagato la mia cuota.
Ho pianto sulla paura di dover ricominciare a star male, a non poter di nuovo camminare, scegliere liberamente dove andare senza dover fare i conti, sempre, con quello che puoi o non puoi: il dolore è quello che sceglie per te, che detta le regole del gioco, tu sei soltanto una pedina che aspetta le sue mosse.
Per fortuna, è durato il tempo di un giorno, oggi sono di nuovo io quella che può decidere se andare o stare.
Persino la nebbia che sfiora pallida la luce dei lampioni lasciandosi dietro un mondo tetro e incenerito di fantasmi, non mi pare così brutta. Non che mi piaccia -impossibile!-, ma almeno  è un'inconsistenza che si può toccare, non come il dolore che agisce nell'ombra delle sensazioni, ma che, seppur velatamente, inghiotte ogni cosa.
Cosí, ringrazio nel silenzio, imploro che non succeda di nuovo, che ieri sia ieri e oggi un altro giorno...e dicendo di nuovo grazie,vado via...
Saluti e baci...  

mercoledì 17 novembre 2010

Vaniglia,albicocche e altri ingredienti

Ieri ho fatto un pudding alla vaniglia con uno strato di salsa d’albicocche.
Non mi piace normalmente la vaniglia, non la uso quasi mai. Peró, questa unione di frutta e baccelli mi convince abbastanza: da una parte, la base acidula e fresca di questo frutto che ricorda prepotentemente l’estate, e dall’altra il profumo e la consistenza di latte vanigliato, mi sembra un abbinamento da valorizzare o, quantomeno, da sperimentare.
In aggiunta, con quel cielo che sembrava una grande fetta di pane bianco spalmata di burro e zucchero, quasi appiccicoso allo sguardo perché le dita, anche se avessero voluto, non avrebbero potuto toccarlo, mi era venuta voglia di un po’ di colore, di ricordare i mesi appena passati.
Avevo appena guardato dalla finestra la piscina e quel che avevo visto mi aveva ancor di più spinto il cuore in fondo ai piedi, era tornata inevitabilmente presente la stagione in cui siamo, nonostante gli sforzi per contraddire il tempo: quel che era acqua azzurra, trasparente e fredda come un ruscello di montagna, ora aveva l'aspetto di uno stagno, verde, solitario, dimenticato.
Non ci vanno più nemmeno le rane che nelle scorse sere d’estate si riunivano a gruppi, numerose, e montavano quel che per loro avrebbe potuto essere una vera e propria festa: la musica la portavano incorporata nelle loro gole che sputavano senza sosta suoni gutturali, quasi un concerto stridente di violini poco intonati.
A volte, ascoltando il rumore dei tuffi nell’acqua, mi sembrava d’essere di nuovo vicino al mare, il suono era quello delle onde e dell’eterno sciabordio…o forse ero io ad averne voglia e, spesso, quando si desidera intensamente una cosa, sembra che quella stessa diventi reale, almeno nelle intenzioni di chi spera.
Ieri, sinceramente, mi dava pena quella stessa piscina dove avevo passato ore ed ore. L' acqua ferma sembrava un acquitrino dove nemmeno gli alberi riescono più a specchiarsi. Sembrava addirittura pesante, un fardello di foglie cadute e di acqua sporca…mi sono chiesta spesso perché la lasciano così e non trovo risposta.
Allora, in questa malinconia sottile che mi stava prendendo il cuore, mi sono detta ”Facciamo qualcosa di dolce che ci riporti, almeno in bocca, l’estate…”.
E mi sono ricordata che mesi fa avevo fatto questa salsa d’albicocche per una mattonella, un semifreddo al formaggio, e siccome ne avevo fatto in abbondanza, quella rimasta l’avevo congelata…e lì era rimasta, neppure me ne ricordavo più!
Ieri l’ho tirata fuori, ho lasciato che si scongelasse…ed eccola lì, la base del mio pudding alla vaniglia, dolce ma non troppo, un miscuglio di sapori e sensazioni che spero non tradisca le mie aspettative.

Ci sono poche cose che mi rasserenano ormai, cucinare è tra queste perché mi libera dallo stato vegetativo in cui cado spesso non avendo molte cose da fare eccetto le solite faccende quotidiane.
Persino andare a far la spesa, a volte, diventa interessante, uno stimolo ad uscire fuori. Quello che mi delude è non aver la capacità di conoscere nuova gente: qui, spesso o quasi sempre, mi sento osservata. Si conoscono tutti, il paese è piccolo, e pare che non abbiano voglia di rimettersi in gioco e di cercare nuove vie che portino a nuove conoscenze. Per dirla tutta, nemmeno io, ormai, mi sforzo notevolmente.
Ci provo in piscina, per esempio, quando vado a fare la nuotatina che sostiene la mia schiena maltrattata. Ma i risultati ogni volta sono deludenti: saluti, sorridi e ti guardano tutti come se stessi cercando di rubare il loro spazio, d’intrometterti in un ambiente che non è il tuo, non perché tu non lo senta tuo, ma perché fanno in modo, senza parole, con poveri sguardi, che tu non ti senta parte di quel loro ingranaggio.
Pensavo, sinceramente, che nei piccoli paesi la gente fosse maggiormente disposta al contatto umano: niente di più falso. È una piccola comunità che per una cosa o per l’altra ha dovuto allargarsi e dar spazio ai nuovi venuti, una colonia umana di stranieri di molte lingue e colori, tradizioni e modi d’essere totalmente diversi dal loro.
Ma invece di favorire l’innesto e di permettere la crescita di nuove e variopinte specie, hanno optato per l’isolamento, tu da una parte e loro dall’altra.
Sarebbe bello poter fare della diversità la normalità, sarebbe bello e interessante dal punto di vista umano. Invece, il risultato è che ognuno si accoppia e si aggruppa con le persone della sua stessa “ normalità ”, ognuno cerca e trova la sua terra in un’altra terra e i nativi sembra che difendano il loro pezzo di mondo come se qualcuno li stesse minacciando.
E non è così. Non è così, ma troppo spesso non ti danno il tempo di spiegare.
Anche se non si dovrebbe sentirsi in dovere di spiegare niente, a volte sarebbe interessante conversare sui perché, sui motivi per i quali uno sceglie o ha scelto di vivere qui piuttosto che in un’altra fetta di universo che a tutti gli effetti ha il diritto di chiamare la sua casa.
Ma ancora siamo distanti dal considerare uguale chi è diverso per lingua, religione o semplicemente per scelta personale. Le persone non ne hanno la voglia perché il diverso continua ad essere, per la maggioranza, una minaccia e non il modo e la maniera di intercambiare relazioni e vissuti.
Io ho quest’esigenza di rapporto umano, ho bisogno di relazioni costanti con il mondo, anche se, ormai, dovrei cominciare ad usare il passato perché ci si abitua a qualsiasi cosa.
Dico sempre che l’essere umano è un pacchetto di abitudini costanti. Porta nella sua valigia l’abitudine del vivere che risulta essere una sequenza di abiti indossati quotidianamente, abiti che si ripetono nei modelli e nelle taglie, abiti dei quali si conosce il tessuto e la fattura e si sa come dove e quando vanno indossati.
Sarà che il mio viaggiare eterno mi ha portato ad accettare ogni cosa, le diversità né mi spaventano né le considero tali: sono per me soltanto aspetti delle vite di altri con i quali mi è piaciuto sempre e mi piacerebbe ancora entrare in contatto.
Scambiarsi formule e teoremi sulla vita e sull’esistere, è l’essenza stessa del conoscere e dell’imparare, è la base nella condivisione del mondo nel quale, si voglia o no, tutti abbiamo lo stesso ineluttabile diritto a stare.
Se non ci fossero frontiere, se l’essere umano fosse davvero libero di camminare a piedi e in libertà il mondo che vuole percorrere, se le barriere non fossero fatte dalle paure degli stessi uomini, se potessimo rinunciare a questa assurda prepotenza di proprietà, se sapessimo vedere nell’altra persona il riflesso di noi stessi, se la libertà non fosse una parola tra milioni nel dizionario ma una vera presa di coscienza, se le leggi non fossero un intoppo ma un mezzo per essere davvero uomini liberi, se non ci lasciassimo costringere in ruoli imposti…se…
Con i “ Se ” e con i “ Ma ” non si fa la storia, è vero, ma senza di loro non ci sarebbero desideri e genialità espresse, anche il periodo ipotetico ha un senso nella storia dell’uomo.
Saluti e baci...

martedì 16 novembre 2010

Esco presto,non sono ancora le otto.
C’è un silenzio gelato intorno a me. Ghiaccio si tira letteralmente all’altro capo della strada verso gli alberi della piscina.
I muratori della casa in costruzione cominciano ad arrivare infagottati dentro giubboni e cappelli di lana grossa.
Io mi guardo intorno e poi alzo gli occhi: oggi il cielo potrebbe essere una conchiglia, bianca, rosa, un’immensa madreperla nella quale, quasi per finta, un aereo traccia senza rumore il suo cammino, il suo volo.
Una conchiglia che racchiude le venature del cielo, mare e cielo di nuovo uniti, come in un omaggio senza frontiere.
Camminiamo senza fretta Ghiaccio ed io: lui si ferma ad annusare il mondo, un secondo e una sosta, due passi e un‘altra sosta, fino alla pineta.
Fa freddo in pineta. Oltre il cancello, il sentiero comincia subito a salire, piano, quasi non te ne accorgi.
Gli aghi di pino e le foglie scricchiolano ad ogni passo, hanno addosso un vestito di brina, ghiacciato e bianco.
Camminiamo tra gli alberi, pioppi e frassini, così alti, quasi fragili, gialli come oro fuso.
In mezzo a loro, in lontananza, si fa breccia il sole. Allunga le sue mani di corallo e il pioppo si riempie di schegge d’oro. Da piccola nespola, il sole diventa un’ arancia crescendo e alzandosi: sulla parete della chiesa, isolata là in alto, custode del tempio e del bosco, i mattoncini rossi s’accendono, le ombre si scaldano e tutto, la chiesa e gli alberi e il cielo, s’illuminano e nella luce cominciano a brillare.
Arrivata in alto, quasi non ce la faccio più: troppe sigarette, il fiato se ne va in fumo,Ghiaccio tira perché vuole tornare “e invece no” -gli dico-, “oggi si arriva fino in alto…che sei un pigrone ciccio e peloso…“...e lui mi segue, sbufferebbe se potesse o mi ci manderebbe volentieri a quel paese...
La “Hermita de San Isidro” non è particolarmente bella, forse perché la storia non si è curata particolarmente di lei: incendi, spogli, l’hanno resa abbastanza spartana, ma è comunque l’occhio che domina la valle. Te la vedi arrivare davanti agli occhi, non sei tu,ma lei che si avvicina, tra campi di cereali e olivi che le fanno da collana, e, in fondo, quasi a disturbare, la larga superstrada e le macchine che da quassù solo si vedono passare, come gli aerei, lasciano soltanto scie senza rumore.
L’autunno sembra essere arrivato allo Zenit, è nel pieno del suo splendore colorato e in questi posti dimenticati dal mondo, ancora si possono vedere le sfumature, ancora le vedi passare, le stagioni, a piccoli passi.
Il paese, le case sparse sul fianco sinistro del colle, come una macchia di vernice sparsa per caso, anche loro si tingono di luce, sbadigliano nel mattino e tornano assenti nelle loro vecchie fondamenta.
Stiamo a più di 800 metri. In un punto, il paese, che segna il principio della Sierra Norte de Madrid, tocca gli 881. Il freddo, quassù, si fa sentire, soprattutto di notte e nelle prime ore del mattino. Non si vergogna della sua forza, alza le braccia forti verso gli alberi ed il cielo e lancia incantesimi di ghiaccio: quel che resta è un fumetto che esce dalla bocca respirando, le mani gelate che cercano ansiosamente il tepore delle tasche, il naso che cola gocce di gelo trasformate in umidità.
Torno a casa, Ghiaccio fa onore al suo nome oggi, saltella e nemmeno sembra accorgersi del freddo pungente.
È uno dei primi giorni di freddo intenso, mi sento intirizzita e briosa.
Sarà vero che il freddo si porta addosso briosità e voglia di fare che poi ti trasmette: almeno muovendosi uno si scalda e non rimane lì paralizzato, come incantato dall’inclemenza degli elementi atmosferici.
Nella casa in costruzione hanno già cominciato a lavorare: sul tetto gli operai sembrano muoversi in bilico come giocolieri, funamboli che vanno in equilibrio sul filo della vita.
Adesso sì c’è rumore di macchine tritasassi,di martelli e macchine cementifere…
Salgo le scale in fretta, Ghiaccio ha voglia di giocare. Una mandata e la porta si apre: dentro è caldo, c’è il tepore di un’umanità che non si è persa ancora, per fortuna.
José sta facendo colazione, mezzo addormentato, con gli occhi dentro il latte e la mano girando e rigirando lo zucchero che già si sarà largamente sciolto.
” Ciao cariño ” -dice
" Ciao Joselin ” -rispondo
E un altro giorno è cominciato.
Saluti e baci

domenica 14 novembre 2010

Lettere dal fronte occidentale

La luce dei lampioni, come fosse un’albicocca di metallo, si riflette nelle poche pozzanghere rimaste, la strada sembra muoversi dovuto ad uno strano fenomeno ottico e l’asfalto mi ricorda quelle scarpe di vernice nera, lucida, di quando ero bambina e con le quali scivolavo spesso.
Guardando dalla finestra, l’idea è la stessa: scivolare sulle ultime gocce d’acqua di un giorno bagnato da un piovigginare lento e quasi incorporeo, ma costante e determinato a non lasciare asciutto nessun angolo tra cielo e terra.
Il cielo si è messo il sole in tasca e lì l’ha dimenticato, come spiccioli che valgono poco o niente. Ogni tanto,s’impiglia, il sole, nei centesimi reali che dormicchiano nel fondo e tintinna e vibra, ma non c’è nessuno che l’ascolti. Quindi, ritorna al suo posto e lascia fare.
Ieri è stato un giorno così, pigro e senza promesse, scivolato via quasi anonimo, uno dei tanti nel calendario che mostra il Partenone, l’Acropoli in una strana luce notturna, affacciata sul mese di novembre, ma ricordando un calore estivo, quello di una città che dorme assorta nella sua antichità.
Un mese sì e uno no, appare nel calendario, come magicamente, la foto di Don Valerio, tra le buganvillee o tra sassi bianchi, tra monumenti o case di pietra, appoggiato a un olivo che cresce nel sole, vestito di bianco.
E nelle altre pagine, sei per l’esattezza, c’è Atene nel suo splendore storico ed antico, classicità che si fonde col moderno, monumenti millenari nello sfondo notturno di questa città afosa e maltrattata.
Don Valerio è sempre stato per me un rifugio dove poter appisolare la mia ansia di sapere o soltanto la calma dopo la tempesta perfetta.
Ricordo che mia madre, quando mi vedeva confusa o preoccupata, mi diceva sempre:” Vai dal tuo Don Valerio ”, perché sapeva bene che poi sarei tornata come in pace con me stessa ed i miei dubbi.
È sempre stato quel padre dal quale avrei voluto carezze e che, invece, non sapeva allungare la sua mano sui miei capelli per addolcire o soltanto rinfrescare i miei timori, le incertezze d’adolescente. Allora c’era lui, il Don, che ci sapeva fare, sapeva trovare le parole o, molto spesso, soltanto ascoltare in silenzio, senza disturbare la mia inquietudine che a volte diventava barriera e non lasciava spazio allo scorrere naturale della vita. Ma proprio nel silenzio parlava, non soltanto al cuore, anche i pensieri diventavano fiumiciattoli sottili che d'improvviso ritrovavano la loro strada verso il mare.
Ricordo perfettamente il chiostro del convento, le colonne di pietra intorno alle quali si allargava il prato, i portici e le lunghe passeggiate contando i passi e girando in tondo;o le api che ronzavano tranquille, sicure di non essere molestate, alla ricerca di fiori e piante nel loro frenetico lavoro quotidiano;o la biblioteca che mi lasciava ogni volta senza parole, il respiro si fermava e la mente stava attenta a quello che dagli antichi manoscritti poteva scaturire.
Mi sono sempre aspettata, lì dentro, che d’improvviso le parole saltassero fuori da quei libri bellissimi e che i pizzi con i quali erano state tracciate, tornassero a ballare intorno a me come quando erano state scritte, da un calamaio e da una piuma vecchi di secoli, e ricominciassero le danze del sapere preciso uscendo, di nuovo, per me, da quelle dita esperte.
Era come volare in mezzo al tempo che lì si era fermato, scoprire segreti e concetti forse già scomparsi nel caos di un passato che non torna, ma che però si faceva spiare, occhieggiare e in un certo senso conoscere.
Poi un bel giorno,sono io che sono partita verso altri tempi, più moderni e dolorosi, e il rapporto si è spezzato inesorabilmente.
Ci siamo ritrovati da poco quando ho ripreso in mano la mia vita che sembrava ormai un libro senza prologo né indice, con una trama ad episodi slacciati, senza quasi legami tra di loro.
Anche nel ritrovarsi non ci sono state parole, soltanto un abbraccio che raccontava gli anni vissuti, silenziosamente. Soltanto lacrime a marcare un tempo che tornava nelle parole non dette, ma che lavavano via anni di solitudini e malumore, anche giorni di allegria e soddisfazione, ma sempre segnati inesorabilmente dal bisogno di una carezza che troppo spesso non veniva.
Don Valerio è, come nelle foto del calendario, un punto fermo, la realtà che va e viene ed anche il bisogno di tornare alla foce dalla quale si è partiti: tornare per ritrovarsi, per non dimenticare, per rinnovare il proprio esistere ed accorgersi, almeno per un attimo che, se si anela al futuro, non si può lasciarsi alla spalle i desideri e le speranze di ieri.
Invece, troppo spesso, pedalo veloce e non vedo passare accanto a me le foto e quel che distingue e sottolinea quel che sono: nella fretta, mi sento come un coriandolo già volato via, invece di pensare che sono un aquilone spinto contro il vento, ma con un filo sottile che mi tiene stretta e mi congiunge a fatti e persone così importanti in quel che è stata la mia vita fino ad oggi.
Ci scriviamo Don Valerio ed io e la cosa strana adesso è che a volte sento che ci siamo scambiati i ruoli: lui è diventato più debole, a volte addirittura penso che ci sia come una piccola crepa nella solidità della sua fede.
Leggo malinconia tra le righe, leggo rimpianti e disillusioni, mentre io, al contrario, sono diventata come una pietra sulla quale sedersi e riprendere fiato, un ciclope che “ guarda il mondo da un oblò ” e non ha più paura di dichiarare le sue debolezze, di firmare trattati di pace con se stessa.
Ma, nonostante, le sue lettere sono sempre una gioia per me perché sono ancora le stesse che ci si scriveva trent’anni fa, anche se il contenuto è per ovvie ragioni differente: però sono scritte a mano, imbustate, con francobollo e destinatario e poi spedite…e tutto suona anacronistico in questo mondo computerizzato, ma così lieve e lento, pausato, nell’indecenza del correre quotidiano.

Il cielo si diverte nella brezza leggera del mattino, si muove aggraziato e evanescente nell’aria, da giravolte passeggere e poi torna sui suoi passi.
Mentre in fondo alla strada, tra il buio e la luce arancio dei lampioni, tra poco, nuvole chiare porteranno a passeggiare la notte nell’altro emisfero che resta il mondo sconosciuto.
Saluti e baci…