venerdì 19 novembre 2010

"...C'è come una ragnatela immensa che scende non si sa da dove e appanna e riempie di fili invisibili ogni cosa...di nuovo la nebbia accompagnata da una pioggia sottile, fili di niente che s'incontrano con l'asfalto umido e tessono o lavorano all'uncinetto una trama impossibile da dire...che roba...mi aspettavo per oggi la pioggia, ma non anche la nebbia...mi é venuto in mente un castello perso nella brughera di qualche luogo e la nebbia che lo nasconde all'inquietudine mia o di chissà chi..."

Ecco, questa è la sensazione che mi ha provocato oggi spostare la tenda del salone e guardare fuori, atto quotidiano che accompagna impavido i miei risvegli davanti ad una tazza di caffé che oggi sa di liquirizia..o forse è la mia bocca che ancora mastica il sapore dell'efferalgan che ho preso ieri a mani piene.
Strana convivenza la mia con l'efferalgan, una sorta di partita a carte tra me ed il paracetamolo che, unito agli altri farmaci che mi seguono da anni scandendo, all'ora prestabilita, la mia necessità, diventa un compagno fidato. Sono contenta quando bara giocando perché nel suo inganno, si perde e scivola via il mio dolore e di questo io non posso che essergliene grata.
Ieri c'è stata una specie di ricaduta che mi ha svegliato spaventata e piena di dolore. E proprio al risveglio, quasi nel sonno ancora, mi dicevo " No, di nuovo per la stessa strada no, non ci voglio più passare..."
Poi ho sceso le scale, come ho potuto, aggrappandomi alla ringhiera come ci si affida ad una speranza, e ho cercato di sedermi e di scrivere, ma invano. Appena sono stata capace di scrivere le quattro parole quotidiane a Marta, poi mi ha assalito un senso di disperazione che vive in completa armonia e concubinaggio col dolore -sono fatti l'uno per l'altra!- ed ho dovuto cedere. È rimasta in me soltanto la consapevolezza di star male, di non poter appoggiare a terra la gamba, di cercare qualche modo di star seduta senza sentire, come una fitta al cuore, quella sofferenza che avevo cercato di dimenticare.
Il dolore è quella piovra che ti aggrappa e non ti lascia libera di muoverti, di agire, ma nemmeno di pensare perchè pare che tutto di te sia costretto a dedicarsi a questa certezza fisica e mentale che non si stacca.
È come quando ti ossessiona un'idea e non puoi far altra cosa che dedicarle tempo, anima e sforzo.
Ma il dolore non è un'idea purtroppo, nemmeno con fatica ciclopica puoi scacciarlo da te: domina e ti domina, costringe e ti costringe, assorbe e ti assorbe.
La paura, ieri, era di essere caduta di nuovo e senza capirne il perchè. Di essere tornata all'improvviso indietro dentro un'angoscia che pensavo o speravo non dovessi più condividere con me stessa.
Poi è arrivato lui, il paracetamolo, e mi sono assopita in lui e con lui dentro un altro mondo fatto di dormiveglia, fatto di sbadigli, ma che, almeno per un po', si è portato via il dolore.
Ho pianto e gridato senza urlare perchè volevo che sapesse che avevo già pagato la mia cuota.
Ho pianto sulla paura di dover ricominciare a star male, a non poter di nuovo camminare, scegliere liberamente dove andare senza dover fare i conti, sempre, con quello che puoi o non puoi: il dolore è quello che sceglie per te, che detta le regole del gioco, tu sei soltanto una pedina che aspetta le sue mosse.
Per fortuna, è durato il tempo di un giorno, oggi sono di nuovo io quella che può decidere se andare o stare.
Persino la nebbia che sfiora pallida la luce dei lampioni lasciandosi dietro un mondo tetro e incenerito di fantasmi, non mi pare così brutta. Non che mi piaccia -impossibile!-, ma almeno  è un'inconsistenza che si può toccare, non come il dolore che agisce nell'ombra delle sensazioni, ma che, seppur velatamente, inghiotte ogni cosa.
Cosí, ringrazio nel silenzio, imploro che non succeda di nuovo, che ieri sia ieri e oggi un altro giorno...e dicendo di nuovo grazie,vado via...
Saluti e baci...