giovedì 30 giugno 2011

Για Σένα...per te...

Il sole danza e danza, fa dei suoi raggi una treccia dorata e spennella il cielo di giallo.
Se profumasse, oggi avrebbe quell'odore dolce di pesche mature, quelle con la buccia vellutata che fanno uno scivolone tra le dita e lasciano scappare, da ogni poro, quel profumo pastoso, saturo d'infanzia, dolce di ricordi, zuccherino come i confettini colorati di quand'ero bambina.
E mentre sto sdraiata nel prato della piscina, tra risa e rumore di tuffi allegri, il sole sfiora come fosse una carezza chi, senza onore e senza gloria, umilmente io, porta nel suo nome quello stesso significato, "sole", in una lingua antica e quasi del tutto dimenticata.
Lingua di filosofi e retori, di drammi e commedie, di acropoli lontane, di matematici e sapienti, di libri di storia e di vecchie e nuove guerre.
Lingua antica della terra di Grecia che ora soffre e si tortura, o meglio, é torturata giá che i potenti hanno in sé sempre quella buona dose di sadismo che lascia senza fiato alla gente che vive tra le vigne e gli oliveti o nel traffico caotico della cittá.
Chi paga i danni, i cocci di un intero servizio di piatti rotto da altre mani, sono sempre gli stessi: donne e uomini che lottano per il pane quotidiano.
Gli altri, chi i piatti li ha rotti davvero e bicchieri e tutto un passato che non sará piú divenire, banche e signori, carnefici crudeli, lasciano scie bianche con i loro yatches puliti e grandi sulle acque verdi e azzurre dell'Egeo, celebrando in calici tintinnanti un'altra morte. La morte della giustizia, del'uguaglianza, di una vita degna e dignitosa.
Ieri, oggi, domani e sempre
Saluti e baci...

venerdì 24 giugno 2011

L'alba...

Un'ora fa, si sentiva soltanto il chiacchierio gutturale delle gazze ladre: come un suono proveniente dal battito di un metallo contro se stesso o contro la barriera posta dal vento che a quell'ora sfiorava l'aria incontaminata delle prime ore del giorno.
Adesso, come in un concierto polifonico, si sono uniti cinguettii sconosciuti, uccelli che da una migrazione lontana sono tornati agli alberi che circondano la piscina.
La luce é scoppiata, leggera e impalpabile, dal niente verso il cielo coprendo forme e contorni, come se di un velo si trattasse, passeggero, armonioso e sfumato
Il cielo, un cartoncino sottile dallo spessore appena accennato, si dipinge da solo di macchie e nuvole sparse qua e la. 
É giorno ormai. Ed io, da sola davanti allo schermo, la tastiera amica sotto le dita, cerco nel silenzio l'elegante e languido fluire delle parole.
É questa l'ora in cui mi sento bene, in pace, tranquilla con me stessa perché, da sola, riesco ancora ad immaginarmi incontaminata. La distanza apparente da me stessa soltanto una nota.
Passeranno le ore e mi sentiró di nuovo impigliata, naufragando ancora dentro me stessa come in un'isola distante e sconosciuta, come se tutto si ripetesse nello stesso ritornello cantato e cantato, monotono e piatto.
Ma adesso, intanto, partecipo del silenzio come un oblío, perdendo il contatto con il disordine e diventando anonima e assente nel mattino
Saluti e baci....

L'acqua...

Le siepi sono state tagliate. Ora sono abiti su misura che vestono la cancellata.
E la piscina, piena di acqua limpida, niente ha da invidiare ad un laghetto di montagna, gelato e pulito, sfumato d'azzurro quando il vento increspa la superficie.
É arrivata l'estate, magari senza rispettare il calendario, qualche ora prima, qualche giorno, che importa?
Stanno terminando di tagliare l'erba e un odore inconfondibile si alza e si spande, dalla terra nell'aria, come un profumo intimo e profondo.
Vorrei incontrare anche dentro di me una coscienza tanto segreta e viva invece della confusione che é rumore e frastuono, una valanga incostante, eppure continua, di turbamento: come se visceralmente ronzasse in me un vespaio che si libra nel turbamento e punge e bisbiglia, un fruscio ripetuto e ricorrente che non mi dá pace.
Vorrei essere chiara come l'acqua e pulita, rinnovata da mulinelli d'energia costante; e limpida, quasi metallica. Vorrei tornare a essere sonora, risonante, tintinnante invece che appannata e nebbiosa e opaca.
Ma "il tempo prende, il tempo dá...", forse non manca tanto alla rinascita...
Saluti e baci...   

lunedì 20 giugno 2011

La siepe di pittosforo....

Il cielo era, quel giorno, come un cassetto pieno di turchesi che sagge e capaci dita avevano infilato, pietra dopo pietra, facendone una collana intorno alla volta infinita e che si stemperavano nell'aria immota come cristalli azzurri.
Il cielo di Madrid che sempre conquista e lascia senza parole, quel giorno era l'anima intatta di dio: un dio finalmente benevolo con le sue creature, esseri instabili e incoerenti che lanciavano promesse e bestemmie verso di lui, ma anche, spesso, preghiere che erano antichi inni, a volte tanto tristi da sembrare quasi naufraghi dentro le proprie lacrime.
Anche le porte dell'estate si erano ormai socchiuse e scintille calde si staccavano direttamente dal sole per cadere incandescenti sulla terra.
L'aria non si muoveva, é vero, ma nella sua staticitá lasciava sfuggire soffi di fiato come sospiri che, all'improvviso, portárono un odore conosciuto.
Come fosse un'onda che, all'andarsene, lascia sempre un ricordo di sé, il profumo la avvolse per un istante e tutte le antenne dei suoi ricordi si volsero e ne raccolsero l'essenza: pittosforo.
Pittosforo a Madrid? Tanto lontano dal mare?
Allora, si accorse che proprio davanti a lei, quasi sfiorando i sensori del suo olfatto, c'era una siepe che copriva una grande cancello, ferro battuto che circondava in un freddo abbraccio una grande casa. Una casa ricca in un quartiere giá alle soglie della cittá, ma col cuore vibrante di mille pulsazioni, pieno di quella forza che solo il potere occulto ed efficace del denaro puó dare. E intanto, centinaia di piccoli fiori bianchi, quasi incollati come ciuffi di crema tra il verde delle foglie, sparsi a casaccio ma con elegante misura, osservavano come fossero piccoli occhi.
Guardavano come si era fermata, sbigottita e incredula, davanti al loro odore, concentrata direttamente sul quel profumo che, senza essere né sobrio né distratto, ma lusinghiero e lussuoso, la stava imbrigliando.
O forse era il ricordo di tempi andati che la incatenava, legandola a sé come fosse filo d'erba cattiva? O edera che s'intreccia e si arrotola, s'avvinghia e preme e cerca spazi tra gli spazi altrui, bevendo di una linfa che non le appartiene?
D'improvviso, veloce e rapido come quel profumo, davanti agli occhi, dal verde scuro e lucido della siepe si stava insinuando la forma lineare dell'orizzonte, lontano. Un orizzonte contro il quale sbattere lo sguardo, inciampare e caderci dentro. Un orizzonte quasi di cristallo, trasparente e sottile, una lastra di vetro nella quale gli occhi avrebbero potuto ferirsi e poi sanguinare gocce d'immenso infinito.
Mancava soltanto l'istante di un sospiro per raggiungherlo e toccarlo davvero: cosa incredibilmente impossibile. Come quando ci avvolge la sensazione di aver giá visto, di aver giá vissuto. Un deja-vu incomprensibile e arcano, manifesto soltanto nelle tortuositá della propria intima essenza.
E la siepe era un mare calmo, bonaccia piatta, totale assenza di vento, tranquillitá riposante e serena.
La strada che a quell'ora sembrava quasi emettere radiazioni luminose tanta era la luce ed il calore, diventata oggetto di un sortilegio, comandata quasi dall'intensitá del profumo, si era trasformata in quel viale che costeggiava il mare, a Fano.
Fano...antica dimora.
Frastagliata di mura ormai rotte qua e lá, vestigia di un nobile passato imperiale, figlia e suddita di Roma, ancora, a rimembrare un passato giá cosí remoto, sfoggiava un arco all'entrata della cittá, la statua di un augusto imperatore e un giardino pubblico, dominio di gatti e uomini randagi, che i Fanesi chiamavano "il Pincio" per far onore alla grande capitale o, chissá, a se stessi.
La Fano romana, la Fano dei Cesari, suddita e alleata, fedele e schiva, continuava a raccontarsi, dopo piú di duemila anni, attraverso la favola di un tempo, divisa tra Roma e il Medioevo, non sapendo, lei stessa, da chi o cosa farsi condizionare.
E costeggiando le mura fiancheggiate ora dai binari della ferrovia, lasciandosi quasi alle spalle la cittá vecchia, si raggiungeva il mare dalla parte del Lido: con i suoi negozi e gelaterie dai nomi variopinti, bazar e locali alla moda, non era diversa da qualsiasi altra cittadina di periferia dove peró la gente si orizzontava cercando il mare.
Il mare era la bussola e la stella polare per uomini e donne avvezzi all' odore acre e pungente di salsedine, abituati alla morte e alla vita, ambedue sorelle di uno stesso destino.
E per lei, figlia della pianura padana, nata da fitte nebbie e umiditá, "...e fiumi che trasformano i padani in marinai non veri...", quel mare era il sogno che avvolge i naviganti pur non essendolo lei, ovviamente.
Lei era un pirata e rubava quel che non le apparteneva: nelle mani callose abituate a tirare le reti o nelle cicatrici profonde sulle facce e nelle vite dei marinai, di nascosto, cercava tracce di storie da poter raccontare, inventando nomi o situazioni, ma lasciando sempre intatto quell'amore per il mare, ancestrale e puro, emotivamente perfetto, come quello dei romanzi d'appendice.
Cosí, anche lei ubriaca si solitudine e di sale, come i vecchi marinai delle osterie del porto, rubava immagini per metterne insieme altre come in una sinfonia di parole perché era l'unica maniera per sentirsi un po' meno sola.
E intanto, tutto il ricordo si spandeva in un unico profumo a migliaia di km dal mare, lontana e distante ormai dal tempo che l'aveva scatenato, quel ricordo, a volte cosí duro da ricordare.
Il pittosforo era quel fiore bianco e delicato che quasi la rappresentava. Prima di tutto perché, proprio come lei, fragile e aggressivo nell'imporre la supremazia del suo profumo, aveva poi dentro di sé, nella stessa timidezza, quella forza che gli permetteva sconfiggere la furia tremenda delle mareggiate. Sopportava, indenne, lunghi mesi di onde, di spruzzi, di bora, vento feroce che soffia impetuoso e impietoso da nord-est capace di strappare le radici dalla terra per scaraventarle nel mare.
Sopportava il caldo afoso dell'estate, una misticanza pesante di umiditá condensata e sudore, quel garbino malevole, vento di libeccio appiccicoso che chiude i pori asfissiando pelle e gola.
E tuttavia resisteva alle stagioni e ai venti, impavido, solenne, per tornare a regalarsi giorni pacifici di una tarda primavera che sempre tornava.
Il lungomare, a Fano, era pieno di pittosforo: siepi tutte uguali, in altezza e spessore, che quando fiorivano riempivano l'aria con quel loro odore dolce, fastidioso a volte, insinuante e pungente, persistente e seduttore, tanto da essere ricordato negli anni e a distanza quasi fosse stato un amante generoso.
In effetti, quel profumo e quelle siepi di pittosforo, non immaginava come fossero cadute lí. Non é esattamente una pianta di cittá come potrebbe esserlo la viola del pensiero, vellutata e romantica nella sua delicatezza; o la margherita, proletaria e disinvolta; o l'ortensia, signorile e superba come la magnolia...
Non ci si riesce ad immaginarlo come un elegante uomo d'affari, giacca e cravatta in tinta, scarpe di vernice e cellulare d'ultima generazione, mostrandosi, altezzoso, per le vie della cittá. No, il pittosforo normalmente costeggia le spiagge come un vecchio lupo di mare, schivo e selvatico, un po' antipatico e senza dubbio tenace; con un berretto di lana blu in testa anche se il termometro promette 40 gradi; barba lunga e, nelle tasche, insieme a un piccolo cavalluccio marino disseccato, odore di mare.
Eppure, stava lí, in uno dei quartieri piú eleganti e residenziali di Madrid, tra il Ramón y Cajal e Plaza de Castilla, a Mirasierra: che giá il nome avrebbe potuto essere un intero programma di vedute da un aereo in volo e panorami di rara bellezza stereotipata.
E cosí, tra edifici di cristallo ed acciaio, giardini delimitati da guardie giurate ed alte siepi, scale di pietra grezza che cercano, invano, di ricreare quell'ambiente bucolico ormai dimenticato, lontano persino dalle sponde del Manzanares, il pittosforo confonde le menti di businessmen maleducati a Mirasierra.
E lei, mentre il ricordo sfumava quanto piú si allontanava dal suo profumo, profanando il potere basico e banale di conti correnti milionari, cominció a salire la scala dai larghi gradini di sasso.
In alto, al secondo piano, a metá strada tra i sogni incerti ed il cielo, l'aspettava un altro colloquio, un altro esame...altro giro, altra corsa...
Saluti e baci... 

giovedì 9 giugno 2011

Il quadro...

C'é un quadro nuovo in casa: un salice si specchia nel mare, si disseta alla luce della luna che, qual dama bianca, domina acqua e cielo, cielo e acqua.
Quando lo vidi nella terrazza, non si distingueva la brillantezza dei raggi lunari. Soltanto polvere e sporcizia coprivano il vetro e la cornice come se gli anni avessero lasciato la loro guerra, lo scalpitio di litigate oscene, sulla leggerezza naturale della tela.
Del salice sí potevo vedere le lacrime ossidate nella polvere, raggomitolate su se stesse, quasi diventate spessi ciuffi di fumo nero.
Fumo di apatia che pochi conoscevano, che aveva vissuto i suoi giorni consumandosi lentamente ma lasciando indelebile traccia.
Quando l'ho pulito, la luce della luna é tornata ad essere un bianco riflesso nelle acque scure che potrebbero essere mare, ma anche lago e persino fiume, il salice si piega e finalmente sembra di nuovo ondeggiare nella brezza immaginata.
L'alone di magia manifesta che si sprigiona dalla luna, accende luci come fossero spettri nella notte che danzano tra le idee e formulano, nel ballo, pensieri e parole.
Mi piace il quadro, molto, anche se preferisco il giorno alla notte ed il sole alla luna; mi piace la pace che traspira e respira; mi piace quella sponda inventata, quel colore che sembra vestire la roccia a picco sul mare e che si fonde e confonde terra e radici.
Chissá se un giorno, prima o poi, dipingerá un quadro vedendo i riflessi della realtá che stiamo vivendo insieme, senza ricordi pensati e pesanti, dipingendo soltanto l'oggi.
Saluti e baci...

Quel che resta...

Il balcone sembra un giardinetto prensile, uno di quelli che, nei quartieri ricchi di qualsiasi grande cittá, sta sospeso tra terra e cielo, tra pavimenti di piastrelle raffinate e azzurro limite. Come se il cielo stesso fosse un prolungamento dei rami di piccoli alberi invasati o il turchese dell'infinito fosse una sfumatura anomala dei petali dei fiori.
Cosí, anch'io, nell'almanacco che registra tutti i colori, dal basso all'alto, vedo le tinte soffuse delle rose che mi ricordavo gialle ed invece scopro bianche con leggeri fruscii rosa nei contorni.
E guardo quell'incerto colore delle petunie: rubino o profonda ametista?
E il rosa dell'oleandro i cui fiori, come confetti ripieni di rosolio, si lasciano masticare dal vento.
Sul balcone é primavera ormai, anche se in ritardo. Perché, invece, ancora fa freddo, soprattutto la mattina: in pineta, tra cuculi noiosi e strani uccelli che non riconosco, l'umiditá raccolta dalla terra durante giorni di pioggia incessante, si alza e sbadiglia o dice e racconta mentre, in lontananza, abbaia il solito cane.

Ghiaccio é stanco e nervoso, trascina i piedi senza desiderio né entusiasmo. La terapia con il cortisone é finita e gli ha lasciato quell'agitazione frenetica che anch'io conosco bene: quella che non ti lascia riposare, che ti costringe a tic nervosi e a frenetici movimenti qui e lí senza trovare pace.
Nessuna posizione lo soddisfa, nessun cuscino conosciuto dove addormentarsi...e la zampa che gratta e gratta cercando, chissá, un po' di quiete, un sollievo all'ansia, una riconciliazione con il silenzio del sonno che non viene.
A volte, spesso, penso che é stata una fortuna non avere figli, per me e per quel figlio che non c'é...perché se sono cosí apprensiva con un cane, come avrei potuto esserlo con un figlio?
D'altra parte, inutile ricordare il sentimento di simbiosi sconnessa che ci lega, quotidiano come il pane, spirituale ma effettivo
Adesso mi guarda, gli occhi come mirtilli neri persi in un mare dolce di panna che é il suo muso...ed io non so cosa fare. Gli parlo continuamente, gli dico che passerá. Ma poi mi ricordo di quando lo dicevano a me e di quante volte ho mandato tutto e tutti a quel paese.
Lui, invece, ha la pazienza di milioni di storia, la tolleranza che é molto meglio di un libro di filosofia, la fedeltá tranquilla che non conosce ribellione...
Vedrai che passa davvero Ghiaccio, tutto passa e si scorda...
Saluti e baci...