mercoledì 17 novembre 2010

Vaniglia,albicocche e altri ingredienti

Ieri ho fatto un pudding alla vaniglia con uno strato di salsa d’albicocche.
Non mi piace normalmente la vaniglia, non la uso quasi mai. Peró, questa unione di frutta e baccelli mi convince abbastanza: da una parte, la base acidula e fresca di questo frutto che ricorda prepotentemente l’estate, e dall’altra il profumo e la consistenza di latte vanigliato, mi sembra un abbinamento da valorizzare o, quantomeno, da sperimentare.
In aggiunta, con quel cielo che sembrava una grande fetta di pane bianco spalmata di burro e zucchero, quasi appiccicoso allo sguardo perché le dita, anche se avessero voluto, non avrebbero potuto toccarlo, mi era venuta voglia di un po’ di colore, di ricordare i mesi appena passati.
Avevo appena guardato dalla finestra la piscina e quel che avevo visto mi aveva ancor di più spinto il cuore in fondo ai piedi, era tornata inevitabilmente presente la stagione in cui siamo, nonostante gli sforzi per contraddire il tempo: quel che era acqua azzurra, trasparente e fredda come un ruscello di montagna, ora aveva l'aspetto di uno stagno, verde, solitario, dimenticato.
Non ci vanno più nemmeno le rane che nelle scorse sere d’estate si riunivano a gruppi, numerose, e montavano quel che per loro avrebbe potuto essere una vera e propria festa: la musica la portavano incorporata nelle loro gole che sputavano senza sosta suoni gutturali, quasi un concerto stridente di violini poco intonati.
A volte, ascoltando il rumore dei tuffi nell’acqua, mi sembrava d’essere di nuovo vicino al mare, il suono era quello delle onde e dell’eterno sciabordio…o forse ero io ad averne voglia e, spesso, quando si desidera intensamente una cosa, sembra che quella stessa diventi reale, almeno nelle intenzioni di chi spera.
Ieri, sinceramente, mi dava pena quella stessa piscina dove avevo passato ore ed ore. L' acqua ferma sembrava un acquitrino dove nemmeno gli alberi riescono più a specchiarsi. Sembrava addirittura pesante, un fardello di foglie cadute e di acqua sporca…mi sono chiesta spesso perché la lasciano così e non trovo risposta.
Allora, in questa malinconia sottile che mi stava prendendo il cuore, mi sono detta ”Facciamo qualcosa di dolce che ci riporti, almeno in bocca, l’estate…”.
E mi sono ricordata che mesi fa avevo fatto questa salsa d’albicocche per una mattonella, un semifreddo al formaggio, e siccome ne avevo fatto in abbondanza, quella rimasta l’avevo congelata…e lì era rimasta, neppure me ne ricordavo più!
Ieri l’ho tirata fuori, ho lasciato che si scongelasse…ed eccola lì, la base del mio pudding alla vaniglia, dolce ma non troppo, un miscuglio di sapori e sensazioni che spero non tradisca le mie aspettative.

Ci sono poche cose che mi rasserenano ormai, cucinare è tra queste perché mi libera dallo stato vegetativo in cui cado spesso non avendo molte cose da fare eccetto le solite faccende quotidiane.
Persino andare a far la spesa, a volte, diventa interessante, uno stimolo ad uscire fuori. Quello che mi delude è non aver la capacità di conoscere nuova gente: qui, spesso o quasi sempre, mi sento osservata. Si conoscono tutti, il paese è piccolo, e pare che non abbiano voglia di rimettersi in gioco e di cercare nuove vie che portino a nuove conoscenze. Per dirla tutta, nemmeno io, ormai, mi sforzo notevolmente.
Ci provo in piscina, per esempio, quando vado a fare la nuotatina che sostiene la mia schiena maltrattata. Ma i risultati ogni volta sono deludenti: saluti, sorridi e ti guardano tutti come se stessi cercando di rubare il loro spazio, d’intrometterti in un ambiente che non è il tuo, non perché tu non lo senta tuo, ma perché fanno in modo, senza parole, con poveri sguardi, che tu non ti senta parte di quel loro ingranaggio.
Pensavo, sinceramente, che nei piccoli paesi la gente fosse maggiormente disposta al contatto umano: niente di più falso. È una piccola comunità che per una cosa o per l’altra ha dovuto allargarsi e dar spazio ai nuovi venuti, una colonia umana di stranieri di molte lingue e colori, tradizioni e modi d’essere totalmente diversi dal loro.
Ma invece di favorire l’innesto e di permettere la crescita di nuove e variopinte specie, hanno optato per l’isolamento, tu da una parte e loro dall’altra.
Sarebbe bello poter fare della diversità la normalità, sarebbe bello e interessante dal punto di vista umano. Invece, il risultato è che ognuno si accoppia e si aggruppa con le persone della sua stessa “ normalità ”, ognuno cerca e trova la sua terra in un’altra terra e i nativi sembra che difendano il loro pezzo di mondo come se qualcuno li stesse minacciando.
E non è così. Non è così, ma troppo spesso non ti danno il tempo di spiegare.
Anche se non si dovrebbe sentirsi in dovere di spiegare niente, a volte sarebbe interessante conversare sui perché, sui motivi per i quali uno sceglie o ha scelto di vivere qui piuttosto che in un’altra fetta di universo che a tutti gli effetti ha il diritto di chiamare la sua casa.
Ma ancora siamo distanti dal considerare uguale chi è diverso per lingua, religione o semplicemente per scelta personale. Le persone non ne hanno la voglia perché il diverso continua ad essere, per la maggioranza, una minaccia e non il modo e la maniera di intercambiare relazioni e vissuti.
Io ho quest’esigenza di rapporto umano, ho bisogno di relazioni costanti con il mondo, anche se, ormai, dovrei cominciare ad usare il passato perché ci si abitua a qualsiasi cosa.
Dico sempre che l’essere umano è un pacchetto di abitudini costanti. Porta nella sua valigia l’abitudine del vivere che risulta essere una sequenza di abiti indossati quotidianamente, abiti che si ripetono nei modelli e nelle taglie, abiti dei quali si conosce il tessuto e la fattura e si sa come dove e quando vanno indossati.
Sarà che il mio viaggiare eterno mi ha portato ad accettare ogni cosa, le diversità né mi spaventano né le considero tali: sono per me soltanto aspetti delle vite di altri con i quali mi è piaciuto sempre e mi piacerebbe ancora entrare in contatto.
Scambiarsi formule e teoremi sulla vita e sull’esistere, è l’essenza stessa del conoscere e dell’imparare, è la base nella condivisione del mondo nel quale, si voglia o no, tutti abbiamo lo stesso ineluttabile diritto a stare.
Se non ci fossero frontiere, se l’essere umano fosse davvero libero di camminare a piedi e in libertà il mondo che vuole percorrere, se le barriere non fossero fatte dalle paure degli stessi uomini, se potessimo rinunciare a questa assurda prepotenza di proprietà, se sapessimo vedere nell’altra persona il riflesso di noi stessi, se la libertà non fosse una parola tra milioni nel dizionario ma una vera presa di coscienza, se le leggi non fossero un intoppo ma un mezzo per essere davvero uomini liberi, se non ci lasciassimo costringere in ruoli imposti…se…
Con i “ Se ” e con i “ Ma ” non si fa la storia, è vero, ma senza di loro non ci sarebbero desideri e genialità espresse, anche il periodo ipotetico ha un senso nella storia dell’uomo.
Saluti e baci...