lunedì 16 maggio 2011

La fisarmonica...

Le lenzuola fanno il gioco del cielo, azzurri piú chiari e poi piú scuri che sfumano in certo tipo di verde che ricorda l'acqua del mare piú che il cielo. Ma non importa.
Poi ci sono gli scacchi della geometria, anch'essi persi nelle stesse tonalitá, magari inseguendo virtualmente le nuvole bianche che si sono fermate, a gregge pasciuto, proprio sopra il tetto.
Perché di solito, invece, le nuvole le vedi correre ed incastrarsi tra di loro disegnando figure, cancellando le precedenti e formandone di nuove, come pennellate nell'aria.Oggi invece no: immota l'aria e le nuvole, nemmeno un soffio di vento. Niente.

Anche oggi, sola nel salone, cerco di ricordare gli istanti, qualsiasi attimo che mi riporti ad un'emozione dato che, ultimamente, piú che di sensazioni ed emozioni potrei parlare di vertigini emotive che mai sono del tutto buone per il cuore.
A quest'ora giá avrei aperto il computer, giá avrei cominciato a lavorare e sudare in quell'antro senz'aria che chiamavano gentilmente ufficio.
Peró, per arrivarci, scendevo alla fermata di Santiago Bernabeu, o "Cuernabeu" come lo chiama normalmente José dato l'odio atavico, e virtuale anch'esso, dei fans dell'Atletico de Madrid verso i Madridisti.
E il Bernabeu, ahimé, é il regno, scettro e corona all'unisono, del Real Madrid...
Ma torniamo a monte, come si diceva negli anni settanta, o almeno diceva chi di politica o di atti socio-economici parlava...
Erano cinquanta minuti di metró, cinquanta minuti di sbadigli invidiosi davanti e accanto a me. Io normalmente no, quando butto i piedi dal letto giá sono sveglia.
Cinquanta minuti di pagine lette e di domande che non affioravano o, se lo facevano, non trovavano mai risposte chiare.
Cinquanta minuti prima di arrivare.
La linea 10 del metró di Madrid, dall'Hospital Infanta Sofia, mi lasciava esattamente davanti allo stadio e soltanto pochi passi ancora separavano la ragione dall'irrazionale che era quel che suggeriva, almeno a me, quel sedicente lavoro.
Ma prima di salire per strada, appena scesa dal vagone, una musica fatta come di ovatta, risvegliava anche le menti piú assonnate.
Il primo giorno, stupita, camminando m'accorgevo d'avvicinarmi sempre di piú alla fonte delle note, passo dopo passo era come convergere, muovendosi da punti diversi, verso un unico punto d'arrivo.
E in fondo alla scala mobile, o al principio, dipende da dove si guarda, un signore, cinquantacinque sessant'anni, mi sembrava che stesse raccontando al mondo intero la sua solitudine attraverso i tasti e poi le note della sua fisarmonica.
Paso doble, bolero, ballate...tango...
E quello che in un qualsiasi dancing d'altri tempi avrebbe invitato a ballare, in questo momento esatto, a me almeno, faceva cadere lacrime come goccioloni di tristezza infinita.
E all'improvviso, dai ricordi affiorava mia madre, giovane e ballando, con un sorriso immenso che illuminava la sua faccia e accendeva i due smeraldi profondi che aveva negli occhi...e ballava e ballava...ballava...
La fisarmonica era il suo strumento favorito ed é per questo che ogni volta che l'ascolto mi torna in mente con violenza quasi. Si fa breccia tra gli altri pensieri e salta fuori piú bella e viva che mai.
Sará per quello che mi commuove ascoltare qualcuno, chicchessia, suonarla. Sará per quello che, insieme ai tasti, sembra toccare, profondamente, le corde del mio cuore.
Poi salivo su, quasi sempre in fretta per non arrivare tardi: e la magia cadeva a terra frantumandosi.
Non restava altro che il lavoro, quell'ufficio quasi finto, il caldo, i computer, quelle telefonate inutili...e la tristezza, che giá non era malinconia ma vero dolore, ricominciava ad opprimermi il cuore.
Fino alla sera quando riprendevo il metró, altri cinquanta minuti di sonnolenza intorno a me e di dissapori in fondo al mio essere...ma poi c'erano le note, la musica di quella fisarmonica sconosciuta e mia madre con me ad accompagnarmi nei cinquanta minuti che mi separavano da casa. Un altro giorno andato, un passo in piú...
Saluti e baci...