giovedì 30 dicembre 2010

L'anno che verrà...

È passato un altro anno, la serie dei numeri cantata impercettibilmente da lassù. Quasi una filastrocca che spesso si ripete, un ritornello spesso conosciuto che lascia poco spazio all’immaginazione.
Non so cosa succeda e nemmeno so perché, ma quest’anno le feste sono scivolate e continuano a scivolare nell’inconsistente gioco malinconico dell’incoscienza, un via vai di pensieri sconnessi che si esiliano dalla realtà.
Come in uno specchio, vedo la mia faccia ed il mio corpo muoversi senza necessità di giustificarne l’andatura, un trottare leggero ma indeciso nei lunghi giorni nuovi che verranno.
Come se d’improvviso il mio corpo non mi appartenesse, come se fosse qualcun'altro che muove i fili: eppure, non mi sento un burattino, oggi ancor meno che in altri tempi, ma un’anima libera e vivace, un colore nel grigio dell’inverno.
Invece, tutto sembrerebbe dimostrare il contrario. La mia immagine si riflette in un paesaggio reale quasi sconosciuto che fugge, a volte, verso il mondo isolato delle idee e tutto ciò che sta intorno diventa un sottile contorno del quale si potrebbe fare a meno. Come una nostalgia, malinconia fugace che ha tirato il freno a mano nel veicolo del tempo e si è fermata a curiosare gli eventi senza esserne, quasi, protagonista.
Perché è così che mi sento in questi giorni pieni di luci e alberi di Natale, presepi e Re Magi che hanno già ormai concluso il loro viaggio, da Oriente ad Occidente, dal Nord al Sud, o dal niente al chissà dove: è così che sparo i miei razzi d’incoscienza nel vivere quotidiano, verso atti che nemmeno m’accorgo di gestire. Uno scenario d’irreale e dinamico far niente che conduce alla malinconia. A volte sono qui e lì allo stesso tempo, presente ed assente nei miei giorni, chissà perché…

Le feste, quest’anno, non mi fanno bene, ho tante cose che mi frullano in testa e si trasformano in una mousse d’atteggiamenti e pensieri non voluti, che si formano e vengono a me senza che li abbia chiamati: lo dicevo, come un’incosciente corsa verso l’irrealtà che, probabilmente, mi rende nervosa e inattiva nel concreto.
Senza essere preda dell’ozio naturale e benefattore dopo giorni di andirivieni frenetico, continuo a far cose, cucinare e sistemare, lavare e stendere, andare qui e là, ma ogni atteggiamento pare essere il termometro di una febbre che ha bisogno di sfogare sensazioni e non ci riesce. Come se avessi bisogno di un cambio, di tagliare i rami morti ed invece non avere la forza o lo stimolo per farlo.
Così, nell’inverno che mi segue, canto attimi di ribellione che sono soltanto spiragli inconsapevoli di fuga…bah, quasi inutile spiegare e cercare di capire quel che è probabilmente soltanto un’emozione tra le tante che spennellano i momenti.

Non è il modo migliore di ricominciare una scrittura troncata tempo fa dalla frenesia delle cose da fare: correre quotidianamente a Madrid per studiare o buttarmi a capofitto al Carrefour nel lavoro instabile di promoter, poi a casa dopo lunghe ore in piedi cercando di vendere o convincere le persone che quel che vendi è il migliore tra gli oggetti esposti…non che non mi piaccia, io sono normalmente un camaleonte e mi adatto alle situazioni, le prendo per mano e le conduco nelle mie vie conosciute. Quel che non mi piace è l’instabilità del lavoro, la consapevolezza sempre dell’incerto, di quel che oggi c’è e domani si vedrà, tutte cose che mi lasciano in bilico come questa nebbia affusolata intorno al mondo tra il tutto ed il niente.
Così, tra una cosa e l’altra, mi sono caduti addosso il Natale e le feste comandate, senza nemmeno accorgermene veramente: pronti l’albero e gli addobbi in casa senza troppa convinzione, pronti i regali e le cene…ed io mi chiedo spesso dove sono, se qui o lì o in entrambi i lati vedendo passare i giorni senza partecipare alla festa
Qualcosa sto sbagliando probabilmente, qualcosa non va, ma non so cos’è, non so se è semplice nostalgia, malinconia di cose e persone che non ci sono più: non lo so, semplicemente non lo so.

Allora, nell’incertezza, meglio fare gli auguri perché quest’anno che viene sia un cesto di speranza, una girandola di salute prospera e sincera, un gioco nel quale, anche se non si è vincitori, almeno non si perda tutto e, se si perde, rimanga almeno la promessa di poter vincere qualche volta, con la certezza assoluta che dopo l’inverno torna sempre primavera.
Buon 2011 di cuore!
Saluti e baci…

venerdì 3 dicembre 2010

Le "Frittelle della Fiera"

Anche oggi, guardando da questo angolo privilegiato la strada, aprendo gli occhi sulla finestra che spia e spettegola le cose del mondo, si vede una striscia di brillantezza, quasi una lastra che potrebbe essere di vetro: invece è ghiaccio, irregolare e birbone.
È di forma irregolare, fa quasi dei disegni astratti sull’asfalto e la luce dei lampioni si riflette sulla sua faccia lucida riempiendo di colore, arancio metallizzato, l’arabesco sottile.
Anche oggi sembra si siano “dimenticati” di gettare il sale e a me sembra incomprensibile l’atteggiamento superficiale di questa gente, amministratori-delegati-sindaci-consiglieri, che sapeva sarebbe successo.
Ieri vedevo la gente camminare quasi in equilibrio sui suoi piedi, quasi zampettando cercando di non cadere. Ma è la prassi della stupidità, non certo da parte delle persone che devono sempre cercare di sopravvivere nelle regole ingiuste ed imposte, no, non è colpa della gente della strada: la colpa è di chi, dall’alto, sembra volerti spiegare le regole del gioco nel quale sei costretto a puntare d’azzardo senza, spesso, aver diritto di replica.

Ma la mia giornata di ieri è stata predominata dalla gioia, nostalgica se vogliamo, perché sono riuscita, dopo tanto cercare, a trovare la ricetta delle”Frittelle della fiera”, così le chiamo io ricordando.
Dove sono nata, a Seregno, nel cuore della Pianura Padana, verso la fine di aprile si celebra ogni anno la Fiera di Santa Valeria che trascina con sé, nella mia testa già disordinata dai ricordi, un senso d’infanzia ed adolescenza che rimane impigliata non solo nella mente, ma anche e soprattutto nel cuore.
Si andava alla fiera in pompa magna, c’era tutto un rituale che la precedeva e poi accompagnava: si doveva aspettare la zia, vestite a festa mia sorella ed io, e poi insieme a mamma, nonna e cugino, ci si incamminava, bambini davanti e adulti dietro, come in un corteo.
Ci si fermava in chiesa, perché la festa originariamente aveva quell’odore d’incenso e di benedizione che, nonostante il passare degli anni, rimaneva negli atti, quasi inconsapevolmente,  anche se si univa sempre più il sacro al profano.
A me sinceramente quello che interessava era arrivare alle bancarelle e poi al luna-park, ma la tappa era più che altro un omaggio alla tradizione, lavarsi l’anima e mettersi in pace con la Madonna e con se stessi prima di concedersi delizie corporali.
Ricordo perfettamente come se quei giorni non fossero mai passati, la massa di gente lungo le vie strette del quartiere, l’odore di croccanti e mandorle tostate…e poi, come d’incanto, cominciava a stuzzicare il naso quel profumo conosciuto, le frittelle della fiera!
C’era una bancarella specifica, sempre quella, dove ogni anno mia madre si fermava, scherzava e rideva con il proprietario che io, bambina, guardavo incantata: vestiva di bianco e stava davanti ad un immenso calderone pieno d’olio dove, con una maestria che a me suonava a magico, metteva e toglieva frittelle da quel liquido bollente che borbottava odori più che parole, e poi le buttava da una parte sul banco e qualcun altro le prendeva, così calde e profumate e le cospargeva di granelli di zucchero che cadevano come neve su quella terra soffice di lievito e farina.
Mi ricordo che guardavo estasiata le bolle d’aria che si formavano nella frittella quando lui buttava l’impasto nell’olio: era un brontolio odoroso, un discorso di sensazioni che a me faceva sempre inghiottire la saliva, l’acquolina mi divorava ancor prima di mettere sotto i denti quello che mi sembrava il dolce degli dei.
Ci si accontentava di piccole cose da bambini, la fiera era una festa e le frittelle un dono invitante e del quale ringraziare, ogni volta, quasi con timidezza e pudore.

E proprio ieri, sbirciando qua e là come faccio spesso nei siti di cucina, non so bene come, le ho trovate e si chiamavano proprio così, ”Le Frittelle della Fiera” !
Così, scommettendo di nuovo con me stessa, perché per me ogni nuova ricetta è una scommessa con la quale mi metto alla prova, ho deciso di provarci.
Ho messo il lievito di birra nel latte tiepido aspettando che si compiesse la magia e cominciasse a produrre bollicine da se stesso
Intanto, ho preparato la farina in un’altra terrina, ho aggiunto zucchero, un pizzico di sale e la scorza di limone grattugiata e poi ho versato il liquido incantato.
Ho mescolato insieme ed ho aggiunto, per ultimo, il burro a pezzettini.
Poi ho cominciato ad impastare, lentamente, con le mani appiccicose all’inizio e poi l’impasto, sempre più elastico, ha cominciato a staccarsi dalle dita e, come sempre, mi ha detto dice che era pronto, che potevo smettere di maltrattarlo con le mani…allora, l’ho messo in stand-by, come dicono gli illuminati!, a riposare.

Questo dell’impastare è un altro atto di magia, non so nemmeno spiegare quanto mi piace mettere le mani nella farina e muovere le dita trasformando la massa informe in una palla morbida e profumata; la farina, l’acqua e il lievito insieme, hanno un odore irriproducibile, tanto meno a parole…proverei se fossi in voi, perché, a me almeno, dà una serenità infinita!

Devono passare almeno due ore, ci vuole tempo e pazienza in questo tipo di lavori, perché l’impasto deve poter crescere e lievitare lentamente, senza fretta urbana.
Impastare ed aspettare richiede tempi antichi, segnati dalla tolleranza e dall’attesa che ormai non sono più sinonimi di niente in questo mondo che corre in un bisogno inconsistente di continue emozioni veloci.

Poi ho ripreso l’impasto tra le mani e ne ho fatto un filoncino lungo dal quale ho staccato delle piccole parti che ho trasformato in palline e di nuovo le ho coperte e le ho lasciate riposare.
Quest’ultima fase non dura più di una ventina di minuti.
Ho ripreso le palline, ho messo l’olio a scaldare e con le mani le ho schiacciate fino a renderle quasi trasparenti nel centro e più cicciottelle sui bordi.
Poi, una ad una, le ho messe nell’olio, caldo ma non bollente altrimenti si bruciano e non da tempo all’impasto compiere l’ultimo tratto di lievitazione…ecco fatto, le Frittelle della Fiera, come per magia, quasi quarant’anni dopo, in un piatto nella mia cucina, una sopra l’altra, spolverate di zucchero come allora e con il ricordo di chi non c’è più ma che continua a vivere ogni volta che tra le mani si rinnova la tradizione, suggestione seducente del passato che non muore nel presente.
Saluti e baci... 

"Fiocca, la neve fiocca..."

http://www.youtube.com/watch?v=KKnjaXFqFDc

Ed eccomi qui...ho tante cose da fare in questi giorni ed altrettante in testa. E quando succede, si crea come una confusione di priorità, non so da dove cominciare e quale tra le cose scegliere come fosse la più importante...
Non è che mi sia dimenticata del blog e di voi che con cautela e affetto seguite le linee che riempiono le pagine...e nelle pagine le parole che raccontano.
Comunque sono qui,  fisicamente presente oggi, a dipingere di nuovo, con le idee, le parole.

Ieri sera tornavamo da Madrid, José ed io, e verso San Agustín de Guadalix cominciò a nevicare.
Che sensazione strana, non tanto la neve, ma piuttosto come scendeva. Dalla macchina in movimento, i fiocchi all'inizio sembravano scintille bianche e fosforescenti, si scontravano con i fari della macchina e all'improvviso acquistavano quella fluorescenza che ricorda figure di spettri. Quasi una magia. Un gioco di luci e di trasparenze che sembravano specchiarsi direttamente dai fari ai fiocchi che, scendendo, ballavano nel vento.
C'era il vento ieri sera, sì che soffiava! e faceva mulinelli con la neve che quasi non riusciva neppure a toccare l'asfalto che continuava indenne, senza tracce d'acqua, quasi stesse indossando uno di quegli impermeabili di plastica lucida e nera che mi ricordano sempre films polizieschi degli anni quaranta.
Il soffio del vento prendeva tra le mani la neve e la lanciava in circolo fomentando un balletto silenzioso che cominciava e si spandeva nell'aria mossa, come un'onda nel cielo nero..
I fiocchi giravano e giravano, facevano girotondo uno con l'altro senza riuscire però a toccarsi e poi,concludendo il gioco, il vento li trasportava e spostava in altre direzioni.

Poi, dopo questa prima impressione di danza rituale e senza meta, i fiocchi cominciavano a lanciarsi contro il vetro, come fossero sottili lame di coltelli d'acciaio, quasi d'argento. E facevano rumore colpendolo, come se la morbidezza della neve si fosse trasformata in granelli di metallo.
Non avevo mai visto nevicare così...

Questa strana discesa libera, stamattina, aveva lasciato in regalo lastre di ghiaccio per la strada.
Dalla finestra, ancor prima d'uscire, vedevo un luccichio sull'asfalto, come se nella notte qualcuno avesse lanciato per le strade chili e chili di brillantini, il maquillage del mondo dopo una notte di freddi bagordi.
Ghiaccio dappertutto, sui marciapiedi e in mezzo alla via, sui tetti delle case e sugli alberi...solo gelo e neve secca e rattrappita lungo i bordi della strada a difendersi, lei stessa, dal freddo di quella solitudine: arrampicata quasi ai muri in piccoli mucchietti, stava lì e dava quasi pena...

Dicono che durante il giorno si alzeranno le temperature, l'inverno non è ancora arrivato ed io ne sono già stufa...
Il sole già comincia a sciogliere la neve: ci sono riflessi argentati su ogni cosa che si evidenzia nella luce.
Il sole sul bianco ancora intatto della neve, gioca e scherza costruendo attimi di luminosità estrema. Ogni ritaglio è un bagliore che fa male agli occhi, così brillante, così violento; un bagliore che si spezza in gocce quasi invisibili nelle quali danza un incredibile, minuscolo e tremante arcobaleno.
Come un'altra speranza che cavalca, indisturbata, il giorno...
Saluti e baci...

lunedì 29 novembre 2010

La neve e il mandarino

Nevica, quasi impercettibilmente.
Sembra che qualcuno, dall’alto, stia grattugiando cioccolato bianco, una polvere che scende giù come sfrangiata, batuffoli disciolti dai quali soltanto svolazzano minuscoli granelli diffusi, niente più.

Stavo leggendo un libro e ad un tratto mi è venuto in mente che, per accompagnare l’arrosto, avrei potuto fare una salsa al mandarino.
Allora ,come sempre in questi casi in cui un’idea mi salta in testa, ho lasciato il libro e mi sono buttata in cucina.
Ho versato un po’ di Brandy e un po’ di Porto in un pentolino che ha le stesse dimensioni di quelli che usavo quando ancora giocavo con le bambole!
Ho lasciato che si riducessero alla metà. Ho spremuto due mandarini,  filtrato il succo e l’ho versato nel pentolino; c’ho aggiunto un paio di cucchiai del sughetto dell’arrosto,  due cucchiaini radi di zucchero e ho lasciato che cominciasse a sobbollire un po’.
Quando anche questo si è ridotto, ho aggiunto una noce di burro.
Il burro, sciogliendosi, ha spessito la salsa che adesso è pronta.
Ha una testura e un colore interessante, un arancio caramellizzato...interessante davvero...del resto, è un invenzione, non ho seguito nessuna ricetta, sono andata a naso come faceva mia madre

Nemmeno mi ero accorta della neve d'altra parte quasi invisibile, qualche fiocco qua e là, saltellante in un cielo che sembra cenere sparsa così, a caso.
Il pranzo è pronto…io torno al mio libro.
Saluti e baci...

domenica 28 novembre 2010

"Come un'attrice persa sulla scena..."

http://www.youtube.com/watch?v=EtdTqiswQJM

C’è profumo di limone in casa.
Mentre fuori zampilla, perseverante, l’odore di neve, qui dentro l’ambiente si è saturato di primavera.
E non so perché, ma all’improvviso mi è tornato in mente Maiori, piccolo paese della costiera Amalfitana, situato nel Golfo di Salerno, sul mare e nel mare dato che anche dal mare può arrivare e partire, la spiaggia è lì e aspetta.

Sarà senz’altro l’odore di limone, così penetrante e aspro che l’ha catapultato alla mia mente.
Quanti giorni e quanta vita lasciata sulla sua spiaggia o nelle piastrelle colorate del lungomare…quanta gente accompagnata e conosciuta, quanti amici incontrati e perduti poi lungo la strada…

Sarà la ”Camminata dei limoni”, quell’istante che mi ha fatto tornare prepotentemente alla mente Maiori: è una specie di passeggiata, da Maiori a Minori o viceversa, una scalinata da percorrere lentamente, a piccoli passi, un sentiero aggrappato alla montagna che fa da cornice al mare.
Si chiama proprio così, la camminata dei limoni, perché in tutto il percorso s’intercalano gli alberi di limone, tanti, fiori bianchi che ti accompagnano quasi per mano.
E in mezzo alle foglie e ai fiori, agli stessi frutti quando la stagione lo permette e lo richiede, un sapore dolciastro di succo di limone ti spruzza letteralmente il cuore.
Perché la gente in mezzo a quei sassi che sono gradini, ancora vive con il sorriso e l’anima tra le mani e quando passi, in gruppo e da sola ,ti salutano e ti invitano a sedere fuori dalle loro case che sembrano grotte comparse dal niente.
E, come le stesse grotte, dal niente si sporgono mani con grandi caraffe piene di limonata, un liquido giallo che si spinge verso il verde con incredibili giochi di sfumature e che, ancor prima d’essere bevuto, ti lancia addosso il suo profumo aspro e dolce, come la terra dalla quale nasce.

Ho ricordi vivissimi di quei luoghi e di quella camminata in particolare.
Per anni ho accompagnato gruppi in Costiera Amalfitana, due quattro, anche più volte all’anno ed ogni volta era per me un rapporto d’amore rinnovato con quella terra e con la sua gente.

Mi ricordo di Francesco, il cameriere dell’Hotel Garden.
Non era bello Francesco: piccolo, magro, denti sporgenti e una massa di riccioli neri, neri come i suoi occhi che, quelli sì, erano belli perché da quel nero carbone usciva fuori, quasi scintilla nel silenzio, tutto il suo grido alla vita.
Si era innamorato di me Francesco o al meno così gli sembrava.
Ma io non di lui. Io che ho sempre giocato con l’amore, mi ero lasciata intenerire da quel ragazzo cresciuto che mi cantava sempre una canzone di Vecchioni, sempre la stessa  “...che non è più vicina né lontana, come un'attrice persa sulla scena..."
  
E mi diceva sempre, in macchina, correndo sulla panoramica verso Praiano e verso quella discoteca dove sotto i piedi c’era l’acqua del mare e ti dava persino le vertigini guardare in basso, mi diceva -quella sei tu, che giochi con me a fare l’attrice e mi prendi in giro…
Ed io che cercavo di spiegargli che non lo stavo prendendo in giro, ma che soltanto non c’era amore in me né per lui né per nessuno, che le cose andavano bene così, che non era momento per altre cose,che non s’innamorasse di me.
Quante volte gliel’avrò detto e ripetuto: non t’innamorare di me che ti puoi far male
Ma lui insisteva in quell’idea d’amore ed io premevo perché quell’ipotesi sfumasse.

Erano giorni belli, giorni vissuti nella consapevolezza del niente perché “ a vent’anni si è stupidi davvero…”, ma si ha vent’anni e il mondo e la vita integra tra le mani.
Me lo ritrovavo sempre dietro Francesco: quando col gruppo andavo ad Amalfi, sulla scalinata del Duomo che ha gradini alti che sembra che non arrivi mai in cima e quando sei su, guardando la piazza, ti senti come se tutto l’intorno fosse tuo.
Dalla porta della Chiesa lo vedevo, la sigaretta in bocca come un Humphrey Bogart di periferia, appoggiato al muro davanti al negozietto di spezie, guardava su facendo finta di guardare il cielo e poi con la mano mi chiamava.
O la sera, fuori dall’Hotel o in quella che sembrava la piccola Rambla del centro e che visto così, di notte, quasi da lontano, non sembrava neppure un paese sul mare, e mi diceva: “ Iliás -strascicando la esse e cambiando accento al mio nome- stamme a ssentí, sei come ‘navventura, Maronna mia…la tua vita e come ‘nu teatro, la maggior parte delle cose che dici nun le posso ‘ntènnere, parli difficile, pare ‘na filosofia pero…nun posso ‘sta luntano ‘e te”
Io ridevo perchè sembrava che stesse recitando le strofe di una canzone e lui s’arrabbiava. “ Me sfotti ” mi diceva.

Francesco è un nome tra tanti che sono un ricordo che si può raccontare o pensare di tanto in tanto e nonostante, lui come altri, non l’abbia mai creduto fino infondo, non ho mai preso in giro nessuno.
Altra cosa potrei dire della gente che con me a giocato a dadi, con me e con i miei bisogni di affetto, non di amore.
Adesso, cresciuta e con i cinquant’anni che suonano alla porta, mi rendo conto che le immagini di quel che uno proietta della sua vita, a volte altro non sono che i ritagli di un film inventato, spezzoni di poesia che si recita da soli e, inconsapevolmente ,si crede che intorno ci sia un coro a sorreggere le battute sbagliate, le virgole scordate nella lettura.

Lo rivedevo sempre Francesco quando tornavo a Maiori, la gente dei gruppi che accompagnavo era diversa ogni volta e, chissà, forse anch’io ero diversa ogni volta.
Un bel giorno decise di far finta di non riconoscermi e da quel giorno ci si incontrava come anime che si erano sfiorate per sbaglio e per correttezza, poi, avevano deciso che non si erano mai incontrate.
Quante necessità ci sono nell’animo umano, quanta incertezza e quanta paura forse e soprattutto dell’amore.
Io so soltanto che anche Francesco, come tanti e tante, mi hanno accompagnato per brevi, brevissimi tratti: poi, come spettri che non si è mai visto, se ne sono andati, sottovoce e in punta di piedi, così ,nello stesso modo in cui erano venuti, ognuno al suo delirio, ognuno cercando di ricordare il copione della propria vita.
Sono tutti spiragli, crepe nel muro che ti costruisci addosso giorno dopo giorno cercando di fabbricare su te stessa la tua casa, il rifugio al quale tornare quando le sere si fanno fredde e scure, quando s’accendono le luci dei lampioni e anche tu, come tutti ,hai bisogno di un cuscino dove lasciar cadere i tuoi sogni.
Saluti e baci...

venerdì 26 novembre 2010

"Vedi cara è difficile spiegare..."

Guardo il cielo scrivendo, con la paura che diventi tutto bianco e cominci a nevicare.
Non mi piace la neve, l’ho detto e ripetuto:nemmeno guardarla scendere, fiocco a fiocco, lenta, ballerina.
Non mi piace e punto. Io sono per l’estate, la neve mi mette il freddo addosso, mi sembra di sentirlo fin dentro l’anima.
Eppure, nonostante mi distragga da lei un sentimento estivo d’amore e di calore, sento il suo odore nell’aria quando sta per arrivare.
Lo dicevo a Marta stamattina… -per inciso dirò che con Marta il rapporto “epistolar-mail”è quotidiano-.
Ci scriviamo tutti i giorni, rincorrendo il tempo che ognuna di noi vive, raccontandoci le frazioni e gli istanti. A volte soltanto le cose belle, a volte le tristi e le belle, a volte soltanto sensazioni…
Ma tornando alla neve: l’odore della neve è un odore secco che sento nel naso, come una nebbiolina che si lascia annusare e, nonostante la neve sia acqua gelata, a me ha sempre dato l’impressione d’essere asciutta e assetata, un odore di piume che volano o bolle di sapone che se le tocchi ti scoppiano nella mano.
Non so spiegarlo, è vero, lo dicevo anche a Marta, forse è soltanto una sensazione che sento nell’aria.
Perché quando arriva la neve, sembra quasi che il mondo si prepari: il cielo si veste di bianco candido, come un mantello d’ermellino che cerca la sua tana, intorno tutto è silenzio sbiadito, quasi soffice da toccare, una coperta di lana appena comprata, piena di vapore che si sgrana nelle mani come un rosario di preghiere che non si ricordano più.
Anche la terra freme, come in un canto gregoriano, toni cupi in armonia col tempo.
Eppure, non mi piace.
L’andirivieni del silenzio mi fa come paura: è un abisso di suoni annientati, vibrazioni che non escono, andamento lento che si spande e cammina.
E i fiocchi di neve, quando scendono giù, sono come fantasmi, intuizioni illusorie, poeti stanchi che non scrivono versi, ma soltanto caricature degli stessi.
Non è una sensazione che mi fa star bene, al contrario: tutta questa distensione perfetta che sembra prepararsi per l’arrivo della neve, mi solleva in un frastuono disordinato, una confusione ostile che mi occupa e preoccupa.
Da piccola mi piaceva la neve, senza esagerare.
Andando a scuola, la mattina presto, quando tutto era ancora silenzio e perfezione, ricordo che mi toglievo i guanti, all’altezza della Villa De Nova, dopo la Pasticceria Torchiana, e con la mano raccoglievo mucchietti di neve dal muretto e la mangiavo. Che sapore amaro aveva la neve!
Allora non c’erano i problemi ambientali di adesso, la neve era acqua pulita dal cuore gelato e a quell’ora era intatta e integrale, una polvere compressa e totalmente naturale.
Mi ricordo che mi sembrava sempre come una fetta di pan carré ghiacciato, non per il sapore che mi lasciava, invece, nella bocca, un gusto rugginoso, ma per l’aspetto ed il colore, così compatto eppur farinoso…proprio come uscita da un sacco, farina immacolata.
Del resto, mia nonna diceva sempre ”Sotto la neve pane”, onorando le sue origini contadine: la neve copre la terra, mi diceva, come una copertina che protegge i semini del grano che poi cresceranno, forti e gialli, chicchi d’oro puro, l’estate che verrà. E mi diceva anche: se fai una buca e ti copri con la neve, sotto senti come un fuocherello che ti scalda…ma io, sinceramente, non c’ho mai provato.

Ma anche queste parole sono soltanto divagazioni, suggestioni da previsione meteorologica, niente di più perchè il cielo è scuro e blu e non si annusa ancora la neve che viene.
Anche se ogni piccola cosa fa sì che i ricordi corrano a comporsi di nuovo in un puzzle che sempre più si va completando,questo è vero.
Come se fosse un esercizio di memoria, attivo e presente, nell’architettura di quel che verrà.
Saluti e baci...

Katis&ili

Tira un vento freddo oggi, come previsto è arrivata la perturbazione dal nord, dal Polo Nord addirittura, come una rete trasparente di ghiaccio e neve da spargere su ogni cosa.
Oggi Marta, prima di uscire di casa, mi ha detto che cadevano i primi fiocchi su Milano -o Meda, non penso cambi molto- e mi ha preso sinceramente la nostalgia. Non certo perché mi piaccia la neve, no no, non mi piace per niente: io dico sempre che sono nata al nord per puro caso, ma che dentro ho un fuoco solare che brilla al sud, al sud di qualsiasi terra, di qualsiasi continente, di qualsiasi mondo, conosciuto o no.
Però, quasi riuscivo, nella distanza, a vedere quei fiocchi di neve volare e poi cadere depositandosi al suolo.
Mi sono venuti in mente giorni lontani, giorni di questi anni che dopo i venti corrono come frecce impazzite lanciate con rabbia dall’arco della vita: un giorno nel cortile, con mia sorella.
Non sono molti i ricordi della mia infanzia che posso condividere con la Katis, eravamo tanto diverse ed avevamo differenti necessità che forse, queste stesse differenze, facevano sì che ci si incontrasse poco e quando succedeva erano spesso più scontri che incontri.

Però lei, nonostante tutto, è una di quelle persone che c’è sempre stata quando ho avuto bisogno di un abbraccio ,di carezze o di soldi, inutile negarlo!, lei è sempre stata lì, paladino nel tempo e custode-guardiana dei miei errori.
Mi piace pensare che non lo faccia soltanto perché è mia sorella, ma invece perché ama di me la persona, a prescindere dai vincoli familiari e di sangue.
E sono sicura che è così perché lei ha un cuore grande, come un cuscino di piume d’oca dove tutti o tanti si accucciano a dormire. Anch’io.

Di quel giorno -tornando a monte o a valle o dove sia più pratico!-, ricordo i contorni, ricordo il freddo pungente, ricordo guanti rossi di quelli con un solo dito con una stella sopra, mi pare, simile ai fiori di ghiaccio sui vetri delle finestre antiche.
Ricordo bene il cortile, grande, vuoto, pieno di neve, totalmente bianco e immacolato nel suo pallore solo verso il fondo dov’era disabitato praticamente…chi ci viveva? La Pina con la sua famiglia…no, a quei tempi, quando eravamo bambine, le case in fondo al cortile non erano abitate, o forse sì, ma non me ne ricordo…
Sta di fatto che in fondo la neve era alta, intatta, ancora compatta e quasi spumosa: un’immensa distesa di latte condensato, malleabile, come sabbia in una spiaggia smorta, vergine e pura.
Uno spazio pulito, tenero, da coccolare tra le dita e poi armonizzare figure che possono sembrare vive e fragili nella loro immobilità.
Questo era quello che volevamo fare: un pupazzo di neve, con una pancia piena e dura, una faccia divertente e occhi e bocca statici, senza movimento alcuno.

Ricordo che cominciammo a trasportare neve dal fondo verso lo spiazzo dietro casa dove gli oleandri erano carichi e già stanchi di portarsi addosso questo carico d’acqua ghiacciata e le rose, coperte di cellophane, ci guardavano trasudando nel tepore un profumo che già non si spandeva, solo un’orma fugace della stagione passata.
Trascinavamo la neve in una cassetta della frutta e pesava, pesava molto; poi la si rovesciava nel posto che si era scelto…e si tornava al fondo a caricare.
Ovviamente, quando decidemmo che la neve era sufficiente, la trovammo ghiacciata, assiderata dallo stesso freddo che, goccia a goccia, la componeva.
Probabilmente litigammo a quel punto, lanciandoci addosso, l’una all’altra, le colpe: dovevi cominciare a fare il pupazzo…perché non l’hai cominciato te? Perché io sono la maggiore…e a me che me ne frega se sei la maggiore…
Come sempre, ci si arrabbiava e poi arrivava mia madre e ci portava in casa e tutto finiva fino alla prossima volta.

Solo più tardi, più grandicelle, siamo diventate sorelle: allora eravamo due sconosciute che avevano vissuto l‘infanzia separate per questo o quel motivo, due persone che non si conoscevano e che, ripeto, erano tanto diverse tra loro da sembrare semi di diversi sacchi!
Però, quando ho avuto bisogno di lei, lei, la Katis,c’è stata sempre…ancora adesso, a volte, vorrei chiederle scusa per tutte le volte che le ho tirato le trecce, che le ho detto che era una “molliccia”, che mi faceva perdere quando si giocava a “castellone”…
Vorrei chiederle scusa per tutti gli errori che ha dovuto subire, errori miei, errori di una vita magari troppo disordinata.
Le ho chiesto scusa, ma c’è in me come un pudore: a volte nemmeno m’accorgevo di sbagliare, vivevo in fretta e senza tregua, non frenavo mai, correvo sempre verso questo o quello.
Poi tornavo a casa, a volte sì a volte no, a leccarmi le ferite come un gatto domestico e al tempo stesso selvatico e indomato e lei era sempre lì ad aspettarmi.

Quando ho saputo,giorni fa, che legge il blog, ho pianto. Di felicità perché finalmente, senza pensarci su, posso davvero regalarle il cuore, quel cuore di vetro soffiato che ho dentro il petto e che a volte faccio finta che sia più freddo e polare di quanto in realtà è.
Ma lei lo sa come sono e quel che sono, conosce le mie imperfezioni, ma anche la mia fermezza e resistenza…e mi vuole bene così.
Un’altra volta ancora chiedo scusa, a lei perché spesso le ho fatto del male, consapevolmente o no: la sua risposta è stata sempre una mano tesa e per questo, e per altro ancora, ti voglio tanto bene Katis.
Saluti e baci...

El "Cole", un sogno

Un giorno José mi raccontò un sogno o una favola che poi finisce per avere lo stesso significato.
C’eravamo conosciuti da poco, tutto stava ancora nell’aria, senza consapevolezza, come un’immagine sfumata.
Sono passati già diversi anni, ma ancora me lo ripeto a volte…
Il sogno diceva così:

“ In un luogo lontano, un paradiso forse o la terra di nessuno, là dove il vento curva veloce e senza frenare scompare, dove ci sono nuvole incandescenti e la luce è un gioiello di brillanti e opale, oltre l’universo conosciuto, un po’ più in là insomma…c’è un luogo dove vivono le essenze che ancora non sono donne e uomini, ma soltanto aria e luce che si fonde con l’immenso divenire.
Quel posto che io chiamo il “Cole”, il Collegio, è magico e sospeso nel niente perché il futuro è niente, ma lì, senza percezione, riesci a capire ogni cosa.
E proprio nel Cole vivevamo, tu ed io, senza mai toccarci, senza mai vederci, ma toccandoci e vedendoci continuamente senza separarci mai. Si viveva bene nel Cole, senza paura, senza domani perché il domani era oggi ed era ieri, in un costante stato di benessere…eravamo tanto felici…
Lì ognuno viaggiava, andava e veniva, da un angolo all’altro senza il pesante bagaglio della consistenza umana, senza corpo: soltanto spiriti che s’incontravano, si riconoscevano e si salutavano.
Senza conoscere l’amore, quello umano che a volte fa soffrire, ci si amava perché quello era il sentimento che ci toccava, ad ognuno di noi, senza differenze.
E nemmeno l’odio né la violenza conoscevamo, non ce n'era bisogno.
Niente turbava la pace del Cole perché dentro vivevano solo gli spiriti di coloro che, chissà, magari un giorno, sarebbero arrivati qui, sulla terra, per essere assassini o santi, non so…
Nel Cole, invece, la vita era un istante e un istante era la vita e nessuno pensava di poter o dover un giorno lasciare quella eterna serenità per cambiare il suo stato d’aria, inconsistente e pura, per un corpo che può soffrire, può star male e poi morire, nessuno ci pensava.

Ma un giorno, arrivò nel Cole un’essenza che già era stato uomo sulla terra, più sporca delle altre, meno luminosa perché aveva visto e conosciuto il mondo, quello stesso che noi vedevamo da lassù o da qualche angolo remoto perduto nel niente.
E tu ti allontanasti un momento e mi dicesti con quella voce che sembrava il soffio del vento :
 -Vado a vedere cosa succede, poi torno”
Non so dire quanto tempo passò, nel Cole il tempo non lo batte un orologio né una campana, il tempo passa e va e poi ritorna e ricomincia a passare e correre per, poi, tornare senza che io o nessuno potesse rendersi conto di quanto di quel tempo fosse passato.
E tornasti, col fiato sospeso, agitata e felice.
 -È stato sulla terra -mi dicesti-, è tornato dalla terra, ci puoi credere? Non avevo mai parlato con qualcuno che ci fosse stato davvero…e dice cose, dice cose bellissime…dice di pozze immense che gli uomini chiamano mare…dice di terre che si alzano dall’orizzonte e che chiamano montagne e poi altre,più piccole, che chiamano colline…dice che ci sono posti dove pezzi scuri di un materiale profumato che chiamano legno, formano alberi, così li chiamano, alti alti che possono quasi toccare il cielo…e poi c‘è una cosa, una persona insomma, che chiamano madre e che sa darti un amore che qui non si conosce, che ti dà la vita mille e mille volte proteggendo la tua…non è meraviglioso? E ci sono tanti uomini che corrono e parlano…persino si toccano e si vedono…”
 -Anche noi ci tocchiamo e ci vediamo, non è così?” Ti dissi io,ma tu già non mi ascoltavi.
Passavi il tempo, da quel momento che mi sembrava diventato davvero e all’improvviso tangibile, come qui, niente di diverso, con quell’essere che ancora non so come chiamavo, se essenza impura o uomo o chissà che…allora solo m’importavi tu che passavi il tempo senza tempo con lui e non più con me…e poi tornavi e mi dicevi:
 -Devo andare, devo andare sulla terra…non vedi quante cose ci sono lì? Le montagne e il mare, la gente…persino i fiori…sai cosa sono i fiori? -mi chiedevi
E senza aspettare che ti rispondessi cominciavi a raccontarmi cos’erano i fiori e di nuovo cos’era il mare. Cercavi di spiegarmi anche cosa fosse l’amore e io ti domandavo:
 -Non ti basta quel che abbiamo qui? Non ti basto io?

E tu mi guardavi, sapevo che mi guardavi anche se non ti potevo vedere, e avevi quell’aria triste di chi deve dire ”No, non mi basta”.
Invece mi rispondevi:
 -Non è che non mi basti, ma ho bisogno di vedere, di conoscere, si può viaggiare laggiù e vedere cose nuove e diverse, non come qui…"

S’interrompeva sempre il racconto del sogno quando José arrivava a questo punto, si leggeva come un dolore remoto nell’intonazione del suo parlare.
Ed io mi vedevo bambina, correre e cercare, sempre alla scoperta di qualcosa, incredibilmente curiosa.
E poi più adulta con la stessa voglia d’imparare, di viaggiare, di percorrere a piedi o come fosse il mondo.
Mi ritrovavo nell’immagine che lui dava di quell’essenza pura che, teoricamente, avrei dovuto essere io: la stessa voglia di andare, la stessa smania di conoscere il mondo e la gente e da questa imparare, lo stesso desiderio di viaggiare senza limiti o frontiere, senza nessuno a dirti dove e quando, sempre alla ricerca di un qualcosa, mai stanca di camminare…
E così poi José continuava a raccontare:

“Insomma, un bel giorno -e ti spiego così il tempo perché già neppure mi ricordo cos’era realmente lassù il tempo- arrivasti e con un’espressione seria, senza quel sorriso che da lontano, sempre, mi diceva che stavi arrivando, mi dicesti:
 -Ho deciso già, me ne vado, vado sulla terra e quel che dev’essere sarà…
 -Non puoi andare perché così hai deciso -ti dissi-, lo sai che devi chiedere un corpo e poi…cosa farai là sulla terra? E cosa farò io quassù?
 -Non lo so -mi rispondesti triste-. So soltanto che lì devo andare…perché non vieni anche tu?
Per un momento pensai che sì, dovevo dirti che sarei andato con te, sulla terra o dove avresti voluto… ma non ne fui capace: lo sai che ancora adesso mi fa paura l’imprevisto, mi piace e mi spaventa allo stesso tempo.
E poi io non ero e non sono curioso, io m’accontento di quel che conosco e dell’amore che sentivo da te e per te.
Così, in un dato momento, senza che io sapessi cosa stessi facendo perché già tu non eri un’essenza, il solo pensare nel corpo fatto di carne ed emozioni, ti aveva trasformato in un essere che io non potevo comprendere come prima, venisti e mi dicesti:
 -È tutto fatto, parto domani
 -E quand’è domani? -ti chiesi angosciato
 -Domani è adesso, sono pronta…mi aspettano, devo andare…
Ti vidi dissolverti ed io, impacciato, era come se non potessi far niente per fermarti. Vidi come una crepa aprirsi e una goccia di sangue cadere giù.
Poi mi spiegarono che era il sangue della tua vita, il parto e il dolore che aspettava là sulla terra.
E ti aspettava una madre, mi dissero, quell’amore che avresti tanto voluto conoscere e che adesso era lì, vicino a te.

A questo punto normalmente ero io quella che interrompeva il racconto.
 -Perché non sei venuto con me? -domandavo sempre
E José sempre mi rispondeva quello che già sapevo, che siamo così diversi, così diversi…e che poi ognuno corre verso il proprio destino e non è giusto che nessuno s’intrometta.
E continuava così il sogno:

“Avevo chiesto almeno di guardarti da lassù, ma mi dissero che non era compito mio sorvegliare e guardare il tuo vivere.
Da allora il tempo diventò davvero pesante, non passava mai e quando passava tornava più carico di noia e di tristezza, molto più fastidioso e massiccio da trasportare.
Ero diventato debole e leggero, nessuno mi poteva mai incontrare: cercavo sempre il modo di raggiungerti col pensiero e non potevo e gli sforzi per riuscirci erano così immensi che mi lasciavano sfinito al bordo di quello che era il cammino per la terra.
Allora, decisi di seguirti, chiesi un corpo e me lo concessero.
Però, mi dissero, non sarei stato vicino a te, avrei dovuto cercarti: questo era il compito che m’assegnarono, cercarti e trovarti senza l’aiuto di nessun cielo, non sapendo nemmeno che ti stavo cercando perché, dalla mia caduta sulla terra, di te mi sarei completamente dimenticato.
E tu di me del resto, anche tu già te n’eri dimenticata.
Ti avrei riconosciuto, mi dissero, con la sola forza dell’amore umano, quell’amore che da lassù mi faceva tanta paura…
E anch’io provai l’amore di una madre, alla fine, chissà, è valsa la pena fare quel salto…
Ma ci sono voluti quarantaquattro per ritrovarti e tutti i se, adesso che ti ho trovato, non valgono niente.
Ti ricordi? Quando ci siamo conosciuti ti ho detto che mi sembrava di conoscerti da sempre: è per questo sai, ti conoscevo dal Cole…”

E qui finisce il sogno e comincia la vita.
È vero, José sempre mi ripete ”Nos conocemos desde el Cole” -ci conosciamo dal Collegio- e forse è vero: quell’incredibile che ci unisce e che ci rende quasi sempre uno, un circolo formato dai capi di quel filo che si sono annodati insieme, a volte penso sia frutto dell’eternità, a volte penso che sia soltanto un sogno.
Ma ci sono cose in questo sogno raccontate all’inizio della nostra storia quando lui, José, non poteva sapere che io fossi davvero così, curiosona e pettegola, “…sempre pronta a masticare il mondo…” : sono tutte sfumature che ha imparato a distinguere poi, col tempo. All‘inizio eravamo come corpi che avevano perso la loro ombra e la cercavano.
Comunque, sia verità o sia soltanto un sogno, per me è un regalo grandissimo, nessuno mi aveva mai regalato una storia così pensata per me e su di me...o soltanto mia sorella quando ascoltava le storie del gigante Gelsomino e mi seguiva il gioco…ma, dopotutto, anche quella è una storia d’amore.
Saluti e baci...

giovedì 25 novembre 2010

Odisseo

http://www.youtube.com/watch?v=-MtMsu7nRkE

Ho scelto d’iniziare con questa canzone perché volevo fare un omaggio ad un amico, uno di quelli che ti seguono e sembrano guardarti o spiare i tuoi passi da lontano, uno di quelli che non hai mai visto in faccia, ma che pare conosca tutte le rughe che hai, intorno agli occhi o alle labbra per aver troppo pianto o troppo sorriso.
Uno di quelli che sembra distante, ma è più vicino di quelli vicini.
Perché un libro o una canzone sono stati i miei amici di sempre, la compagnia silente di giorni persi nell’ombra di un ricordo o nelle sfaccettature del presente.
E questi libri e queste canzoni scritte da altri, questi amici lontani, vacillano se tu ti senti perduta, sono rocce se tu ti senti sicura, sono gracili fotografie in un album di ritagli.
Sono loro, gli amici sconosciuti che parlano in linee morbide su pagine che una volta erano bianche, che ispirano i tuoi pensieri, che coprono le tue incertezze, che ti dicono come e quando altri esseri umani, tanto diversi o perfettamente uguali a te, hanno avuto e vissuto gli stessi dubbi che seguono, stanchi e perversi, la storia d’ogni uomo pensante.
E sono quegli stessi amici che attraverso le canzoni cantano con la loro bocca la tua storia…è strano, no?
È incredibile ritrovarsi nelle strofe di altri, nelle frasi ritmate di un ritornello, nella melodia di un altro suono che pensavi appartenesse a chi l’ha scritto: invece no.
Come figli svezzati, le canzoni ed i libri volano via, non sono più tuoi, ma di tutti quelli che hanno voglia di leggere, d’ascoltare, di condividere.
Per questo e per molto altro considero il Guccio un amico, un amico leale che probabilmente non può tradire perché il rapporto è di quelli che non si toccano, che soltanto si respirano con i polmoni di un’emozione.
Oggi ho scelto questa canzone, “Odisseo”, perché dal primo momento in cui incontrai Ulisse sul mio cammino, anni ed anni fa studiando Omero e la sua storia triste di lacrime ed inganni, mi accorsi che lui era me, che io ero lui nel cammino e nella storia del mondo che si ripete e si intreccia.
Così, il suo destino di navigante verso un desiderio sconosciuto, è stato il mio per anni ed anni, quando sulle ali di un aereo navigavo i mille cieli infiniti cercando un destino conosciuto o sconosciuto, la differenza è poca. L’uguaglianza sta sempre nel cercare, nella ricerca costante di un infinito che sia il più prossimo possibile, che sia una certezza nella vacuità di quello che sembra non possiamo sapere.
O su un treno varcando stazioni, campi arati e pianure, valichi invalicabili e montagne…fino ad arrivare al mare,un mare che sembrava aspettare il mio arrivo o il mio ritorno e che cantava con le onde sbattute sugli scogli la loro e la mia storia.

"Ma nel futuro trame di passato si uniscono a brandelli di presente,
ti esalta l’acqua e al gusto del salato brucia la mente
e ad ogni viaggio reinventarsi un mito a ogni incontro ridisegnare il mondo
e perdersi nel gusto del proibito sempre più in fondo..."


Ulisse, anche lui, invidiava l’infinito da conoscere, accarezzava e sospirava il sogno dell’impossibile perché era l’uomo, l’uomo che cerca e non trova, l’uomo che va percorrendo la sua strada a caccia di un’altra strada dove trovar soluzione al suo vivere.
Però, sempre si torna al proprio esistere, sempre si ritrova il percorso, la via giusta verso una nuova prospettiva che molte volte è l’antica, quella da seguire.
E io ho trovato il mio posto, qui, in un paesino nel fronte occidentale dell’Europa, tra montagne, pigne e faggi e mandorli e lontano dal mare.
Ho trovato la stazione d’arrivo, quella dalla quale, forse, sono partita un giorno, chissà, e dalla quale  non ho voglia di ripartire anche se a volte è difficile poter soltanto ricordare le facce di chi ami e che sono lontani, il caffè della mattina bevuto in piedi, in un bar nella piazza, caldo e forte mentre senti da lontano l'urlo del mare…la pizza con quattro amici a cui raccontare i tuoi pensieri senza cercare le parole.
Ma tante volte ho detto e scritto che quel che ho lasciato è molto meno di quel che ho incontrato, ed è vero, non lo dico perché chi lo legga si senta tranquillo,no. Lo dico con la certezza della condivisione quotidiana…anche Ulisse, alla fine, è tornato nella sua Itaca perché lì c’era chi l’aspettava.
Saluti e baci....

Lucio Battisti - Io vorrei... non vorrei... ma se vuoi

"Vorrei,non vorrei,ma se puoi..."

Vorrei riuscire oggi a raccontare cose belle: come i fiori di gelo che il ghiaccio, durante la notte, ha ricamato con grazia e costanza, sulle foglie già scure, spezzate dai passi e dal freddo; come il cielo chiaro, senza nuvole, che copre come un tetto il mondo sottostante, la luce che emana dal sole che nasce dietro le case, sfiorando con i suoi raggi obliqui il bosco e le colline.
Cose belle come l’odore che lascia il freddo, frizzante ed evanescente, che si contrappone all’odore spesso della legna bruciata nei camini; come l’aria immota che, nonostante il sole, ha odore di neve, bianca e pallida, che presto si poserà qual beata chimera tra la terra ed il cielo.

Invece, dolori forti mi accompagnano anche oggi, come spasmi nelle ossa, zoccoli pesanti che portano in giro un corpo stanco, direi stufo di star male.
Ma anche questo serve a far sì che i giorni e le notti spesso insonni acquistino il loro valore, come ogni cosa che nasce e cresce sotto questo cielo.
D’altra parte, è pur vero che il dolore offusca la mente, non metaforicamente, ma con reale aggressione: crea come una cappa di sudore stillante, un mantello che senza considerazione alcuna copre ogni cosa, ogni gesto, ogni azione che ti proponi fare, tutto assiste e chiede permesso al dolore.
Re, sovrano del corpo,  s’appropria della mente in ugual misura e,si sa, se la mente non risponde, il corpo vale poco, e viceversa, se la mente accude alla chiamata, il corpo a volte si dimentica dell’appuntamento: e siamo sempre lì, nello stesso groviglio d’intenzioni, la mente senza il corpo ed il corpo senza la mente, sono due componenti che, agendo in solitario, possono far gran danni.
Spero soltanto di tener quella forza necessaria che, dominando l’impulso del dolore, mi permetta controllare almeno parzialmente gli atti e i pensieri di questi due gigolò che mi porto a spasso, la mia mente ed il mio corpo, epicurei nel vivere e indomabili guerrieri al tempo stesso.

Insomma, mi spiace non essere spesso una piacevole compagnia, nemmeno io, del resto, sto ben accompagnata in questi giorni: chiedo venia, perdono e carezze, anche se da lontano, carezze che mi aiutino a non cadere continuamente, che mi guidino nel cammino se la forza manca ed ho bisogno di un bastone.
Non mi vergogno, chiedo aiuto a volte senza intromettermi troppo, cercando di non disturbare perché ognuno vive nella propria vita il proprio dolore e non è giusto caricare sugli altri il bagaglio che è tuo.
Nonostante, rimango qui a far dei miei giorni una cronaca vera, senza bugie e con la verità nelle dita, scrivendo quel che sento e quel che invece vorrei sentire, ma con la certezza di non essere mai totalmente sola.
Saluti e baci….

mercoledì 24 novembre 2010

"E tu scrivimi scrivimi se ti viene la voglia..."

Inciampando di nuovo nel filo che lega insieme i miei pensieri, ci riprovo a tenervi compagnia, a sollevare la stanchezza che in questi giorni mi porto addosso.
Non sempre riesco ad essere fedele all’appuntamento con le mie stesse parole, qualche volta mi perdo in altre cose e la mente divaga.
Sono giorni strani, quasi pesanti da portare in giro. Le ossa mi fanno male, il corpo non sempre risponde ai mille e mille stimoli che gli lancio.
Sarà questa nuova stagione che, ancora praticamente lontana, già comincia a marcare il passo dei miei piedi, inizia a proiettare razzi di silenzio bianco in quello che dovrebbe essere il mio spazio quotidiano di colore.

Questo blog mi sta aiutando ad acquistare certezze, non tanto per l’approvazione o disapprovazione di altri, no: è come se mi stessi convincendo di potercela fare, di essere capace, un giorno di questi, di raccogliere in una cartelletta virtuale tutti i racconti e le storie che stanno lì, docili ma intrepidi nel computer, chiedendomi continuamente ”Quando ci lascerai volare via?”.
Pensavo di aver bisogno che altri mi dicessero se valeva o no la pena che quel che scrivo vedesse la luce.
Invece, scrivendo quasi quotidianamente, mi sono resa conto che è solo questo quel che voglio, scrivere.
Non penso quasi più se le mie storie possono essere anche le storie di altri; non soffermo il pensiero sul come far sì che quel che scrivo piaccia perché sarebbe come voler sradicare una pianta dall’angolo privato dove è nata. Sarebbe come se io cercassi di sfuggire ai miei bisogni e necessità per soddisfare quelle di altri.
Quindi, da un po’ scrivo per il piacere di farlo, non misuro le parole che davvero, adesso, escono e volano via senza giustificazioni o atti che cerchino di cambiarle.
Mi è successo, a volte, prima di scrivere, di cercare con ansia le parole che potessero spiegare.
Ora no, lascio che partano da dentro, che prendano questo o quel treno senza direzione prestabilita.
È quello che a molti piacerebbe fare, me compresa: arrivare in un aeroporto, avere abbastanza soldi in tasca e scegliere se non il primo volo, almeno quello che più ispira fantasie, in questo o in quell’altro emisfero, senza nessun’altra ragione che non sia la voglia di andare.
Così succede con le mie parole: vanno e vengono senza frontiere, senza nodi che le tengano unite o costrette in una situazione.
Soltanto sensazioni, attimi che scivolano via lasciando soltanto una scia leggera.
Ogni attimo è un mondo a se stante, con i suoi dati e le sue ragioni, solitario nonostante l’unione con gli altri momenti.

Niente altro da aggiungere. Il giorno, insieme alle parole, nasce e scorre seguendo il suo cammino, l’orizzonte cambia i suoi fantasmi rosa per altri di mille differenti sfumature; la luna ancora vigila nonostante la luce, resiste al desiderio di dormire lasciando che la sua immagine effimera si sfumi nel bagliore della luminosità, naturalmente.
Sono uscita con Ghiaccio, ho percorso i cento passi dentro il bosco, ora accendo candele e incenso per augurarmi, io sola, un buongiorno.
Saluti e baci...

domenica 21 novembre 2010

Sarà che l’infinito è più vicino a volte di quel che possiamo sospettare, sarà che con un dito si riesce persino a toccarlo se la serenità dell’anima coincide e si congiunge con questo cielo…ma oggi la luna è più vicina di quel che ci si potrebbe aspettare.
È una grossa faccia d’acciaio o, come scrivevo stamattina a Marta, un’ancora lucente lasciata in mezzo al mare, così piena ed estrema, gonfia di luce eterna, un faro che avvisa i naviganti.
Le nuvole sono soltanto graffiature iridescenti, bianche nel buio, soltanto lamine di stupore nella notte quasi finita.

La gioia di scrivere, a volte, inciampa nel foglio bianco.
Chi scrive sa che la pagina immacolata risulta essere come un terreno da seminare, zolle di terra che si lasciano spostare ed educare.
Ma, a volte, il campo si copre d’alabastro, irriducibile e inclemente, anche se malleabile: sarebbe bello riuscire sempre a lavorare la roccia piena di sfumature rosa e costruirne vasi destinati a contenere unguenti ed oli profumati per alleviare dolori e ferite. Non sempre si può.
A volte il campo si copre improvvisamente di neve, fiocchi che cadono lenti come molliche di pane danzanti nella furia della tempesta; piccole dita bianche che corrono sulle corde della terra e decidono per te quale musica suonare; gocce di latte che inzuppano le tue parole e le sciolgono come zucchero.
Altre volte il campo si riempie di erbe sleali che aggrediscono ogni cosa, di gramigna maliziosa che lascia dietro di sé il suo fusto strisciante e selvaggio che amalgama ogni idea.
Altre ancora la pioggia lava via le intuizioni, scende retta, lo schieramento di un esercito mascherato e beffardo che cancella i possibili pensieri.
Quando succede, si rimane vuoti in attesa, in attesa di un qualcosa, di un qualcuno che ti dia una mano e timbri i momenti.
Non è facile stare davanti al foglio bianco: in sé trascina il tutto e il niente.
Allora, la mente saggia firma un trattato e si coalizza, promette fiumi d’inchiostro e parole che incuriosiscono la vanità del bianco, lusinga il vuoto vaporizzando speranze.
Il risultato, a volte, è il componimento, più o meno letterario, ma pur sempre una composizione che, attraversando con le parole le idee, riesce a seminare il campo.

Quando invece, nonostante la certezza del volere, il cratere rimane vuoto nella totale assenza di stimoli, il terreno ti guarda provocante e ride, continua a lasciare che cada la neve, che scenda la pioggia, che la gramigna generi figlie figli e s’impossessi dell‘essenziale.
Quindi, ogni linea che avresti potuto tracciare, ogni parola che avrebbe potuto navigare bagnata di inchiostro verso pensieri potenziali, ogni schizzo di idea che avrebbe potuto creare un concetto, rimane lì, chiusa nella punta della penna o inchiodata alla plastica della tastiera non riuscendo a comporre con l’alfabeto vocaboli, frasi… insomma, una fioritura che valga il prezzo a pagare!
Quando succede, provi a discorrere e ragionare col foglio bianco su come sarebbe se stamattina non avessi idee da condividere!
Saluti e baci... 

sabato 20 novembre 2010

Stamattina il cielo appare come un enorme ventaglio di piume di pavone che il vento leggero sembra riuscire a muovere formando onde galleggianti tra il blu della notte e l’azzurro quasi argenteo delle nuvole.
Un anfiteatro di seta fluttuante che mi ricorda la messa in scena de “ La tempesta ” shakespeariana dove le ondine si muovono e correndo spostano il drappo blu che rappresenta il mare.
Il cielo ed il mare, puntualmente, a me sembrano figli di una stessa grandezza e siccome adesso non posso soffermarmi a guardare l’acqua, mi ritrovo spesso col naso all’insù cercando nel cielo quel che normalmente sulla terra non vedo.
Quell’infinita cavità eterea alla quale noi stessi attribuiamo un colore, mi perde, mi assimila in sé quando alzo gli occhi e invento storie che sono o mai saranno.

Ieri il sospetto della nebbia è durato soltanto un soffio di vento, lo stesso che ce l’ha fatta a portarsela via con sé, non so dove, nemmeno me lo chiedo perché volgo il pensiero al cielo azzurro nel quale la nebbia si è dispersa e che ha saputo ricreare in me un’armonia interiore.
È vero che mi perdo, scrivendo, in metafore e pezzi bucolici, rivendico un passato contadino che fino a poco tempo fa soltanto conoscevo nell’incoscienza.
Ma da quando vivo qui, il contatto diretto con gli elementi mi costringe quasi a sentirmi parte di un tutto che per altri non significa niente e che per me, invece, rappresenta l’essenza dei giorni e della vita stessa.
Non riesco a staccare le mie emozioni, le sensazioni ed il vivere, dalla lentezza dei cicli naturali. Sto in perfetta simbiosi con quel che è il ritmo sacro delle stagioni, con il passare del tempo cadenzato dai colori e dagli eventi che, lungi dall’essere soltanto atmosferici, scrivono insieme a me quel che succede o succederà.
Mi sento in equilibrio, come una coralità di suoni e d’azioni che concordano totalmente con il mio esistere e anche le contraddizioni, le dissonanze o stonature, si fondono insieme e non rompono la proporzione musicale, anzi, ne rialzano il movimento.
Non pretendo che tutti lo capiscano, è normale che ognuno di noi viva la propria vita secondo certe andature e modulazioni che gli appartengono: le mie, rispettano i tempi prestabiliti, le alternanze e i cicli e si lasciano frammentare in un ordine che, spesso, si fonde e si confonde con il processo naturale.
Sarà per questo che passo i giorni interrogando cielo e terra, per questo inciampo nell’inconsistenza delle foglie cadute o riesco a sentire il tempo che cambia .Per questo o per altro ancora, non so.
Oggi, insomma, l’assenza quasi totale del dolore, mi avvicina a pensieri ed intuizioni positive.
Non chiedo niente alla vita, quel che ho è quanto mi appartiene, per un attimo o per un tempo infinito.
Anche da me stessa sto imparando a non pretendere più di quanto possa dare e darmi.
In tutti i giorni che ho vissuto, mi sono offerta sempre sforzi sgarbati per cercare nell’azione il senso alle cose: adesso presto ascolto al moto del mio corpo, alla sua intuizione e orientazione anche se, ancora a volte, il cardine prepotente e razionale torna fuori e schiaffeggia i vecchi miti.
Ma, comunque, cerco di mantenermi in equilibrio, ogni giorno è un filo sospeso in alto ed io un funambulo che prova a raggiungere l’altro capo, con le braccia aperte per raddrizzarsi quando un inaspettato soffio di vento lo spinge e può cadere. A volte ci riesco, a volte cado nel niente, ma nessuna caduta, ancora,mi ha impedito di rialzarmi e continuare il gioco.

Dalla finestra guardo la strada deserta, soltanto ombre sotto la luce dei lampioni e un venticello diafano ed elegante che può soltanto spolverare quel che resta della notte.
Oggi, questo giorno ancora infantile ed innocuo, predice un futuro prossimo intellegibile e cristallino, sole e brezza evanescente, come un quadro dipinto ingenuamente coi colori dell’imprevisto.
Ed è, senza dubbio, un giorno nuovo…
Saluti e baci...

venerdì 19 novembre 2010

"...C'è come una ragnatela immensa che scende non si sa da dove e appanna e riempie di fili invisibili ogni cosa...di nuovo la nebbia accompagnata da una pioggia sottile, fili di niente che s'incontrano con l'asfalto umido e tessono o lavorano all'uncinetto una trama impossibile da dire...che roba...mi aspettavo per oggi la pioggia, ma non anche la nebbia...mi é venuto in mente un castello perso nella brughera di qualche luogo e la nebbia che lo nasconde all'inquietudine mia o di chissà chi..."

Ecco, questa è la sensazione che mi ha provocato oggi spostare la tenda del salone e guardare fuori, atto quotidiano che accompagna impavido i miei risvegli davanti ad una tazza di caffé che oggi sa di liquirizia..o forse è la mia bocca che ancora mastica il sapore dell'efferalgan che ho preso ieri a mani piene.
Strana convivenza la mia con l'efferalgan, una sorta di partita a carte tra me ed il paracetamolo che, unito agli altri farmaci che mi seguono da anni scandendo, all'ora prestabilita, la mia necessità, diventa un compagno fidato. Sono contenta quando bara giocando perché nel suo inganno, si perde e scivola via il mio dolore e di questo io non posso che essergliene grata.
Ieri c'è stata una specie di ricaduta che mi ha svegliato spaventata e piena di dolore. E proprio al risveglio, quasi nel sonno ancora, mi dicevo " No, di nuovo per la stessa strada no, non ci voglio più passare..."
Poi ho sceso le scale, come ho potuto, aggrappandomi alla ringhiera come ci si affida ad una speranza, e ho cercato di sedermi e di scrivere, ma invano. Appena sono stata capace di scrivere le quattro parole quotidiane a Marta, poi mi ha assalito un senso di disperazione che vive in completa armonia e concubinaggio col dolore -sono fatti l'uno per l'altra!- ed ho dovuto cedere. È rimasta in me soltanto la consapevolezza di star male, di non poter appoggiare a terra la gamba, di cercare qualche modo di star seduta senza sentire, come una fitta al cuore, quella sofferenza che avevo cercato di dimenticare.
Il dolore è quella piovra che ti aggrappa e non ti lascia libera di muoverti, di agire, ma nemmeno di pensare perchè pare che tutto di te sia costretto a dedicarsi a questa certezza fisica e mentale che non si stacca.
È come quando ti ossessiona un'idea e non puoi far altra cosa che dedicarle tempo, anima e sforzo.
Ma il dolore non è un'idea purtroppo, nemmeno con fatica ciclopica puoi scacciarlo da te: domina e ti domina, costringe e ti costringe, assorbe e ti assorbe.
La paura, ieri, era di essere caduta di nuovo e senza capirne il perchè. Di essere tornata all'improvviso indietro dentro un'angoscia che pensavo o speravo non dovessi più condividere con me stessa.
Poi è arrivato lui, il paracetamolo, e mi sono assopita in lui e con lui dentro un altro mondo fatto di dormiveglia, fatto di sbadigli, ma che, almeno per un po', si è portato via il dolore.
Ho pianto e gridato senza urlare perchè volevo che sapesse che avevo già pagato la mia cuota.
Ho pianto sulla paura di dover ricominciare a star male, a non poter di nuovo camminare, scegliere liberamente dove andare senza dover fare i conti, sempre, con quello che puoi o non puoi: il dolore è quello che sceglie per te, che detta le regole del gioco, tu sei soltanto una pedina che aspetta le sue mosse.
Per fortuna, è durato il tempo di un giorno, oggi sono di nuovo io quella che può decidere se andare o stare.
Persino la nebbia che sfiora pallida la luce dei lampioni lasciandosi dietro un mondo tetro e incenerito di fantasmi, non mi pare così brutta. Non che mi piaccia -impossibile!-, ma almeno  è un'inconsistenza che si può toccare, non come il dolore che agisce nell'ombra delle sensazioni, ma che, seppur velatamente, inghiotte ogni cosa.
Cosí, ringrazio nel silenzio, imploro che non succeda di nuovo, che ieri sia ieri e oggi un altro giorno...e dicendo di nuovo grazie,vado via...
Saluti e baci...