venerdì 3 dicembre 2010

Le "Frittelle della Fiera"

Anche oggi, guardando da questo angolo privilegiato la strada, aprendo gli occhi sulla finestra che spia e spettegola le cose del mondo, si vede una striscia di brillantezza, quasi una lastra che potrebbe essere di vetro: invece è ghiaccio, irregolare e birbone.
È di forma irregolare, fa quasi dei disegni astratti sull’asfalto e la luce dei lampioni si riflette sulla sua faccia lucida riempiendo di colore, arancio metallizzato, l’arabesco sottile.
Anche oggi sembra si siano “dimenticati” di gettare il sale e a me sembra incomprensibile l’atteggiamento superficiale di questa gente, amministratori-delegati-sindaci-consiglieri, che sapeva sarebbe successo.
Ieri vedevo la gente camminare quasi in equilibrio sui suoi piedi, quasi zampettando cercando di non cadere. Ma è la prassi della stupidità, non certo da parte delle persone che devono sempre cercare di sopravvivere nelle regole ingiuste ed imposte, no, non è colpa della gente della strada: la colpa è di chi, dall’alto, sembra volerti spiegare le regole del gioco nel quale sei costretto a puntare d’azzardo senza, spesso, aver diritto di replica.

Ma la mia giornata di ieri è stata predominata dalla gioia, nostalgica se vogliamo, perché sono riuscita, dopo tanto cercare, a trovare la ricetta delle”Frittelle della fiera”, così le chiamo io ricordando.
Dove sono nata, a Seregno, nel cuore della Pianura Padana, verso la fine di aprile si celebra ogni anno la Fiera di Santa Valeria che trascina con sé, nella mia testa già disordinata dai ricordi, un senso d’infanzia ed adolescenza che rimane impigliata non solo nella mente, ma anche e soprattutto nel cuore.
Si andava alla fiera in pompa magna, c’era tutto un rituale che la precedeva e poi accompagnava: si doveva aspettare la zia, vestite a festa mia sorella ed io, e poi insieme a mamma, nonna e cugino, ci si incamminava, bambini davanti e adulti dietro, come in un corteo.
Ci si fermava in chiesa, perché la festa originariamente aveva quell’odore d’incenso e di benedizione che, nonostante il passare degli anni, rimaneva negli atti, quasi inconsapevolmente,  anche se si univa sempre più il sacro al profano.
A me sinceramente quello che interessava era arrivare alle bancarelle e poi al luna-park, ma la tappa era più che altro un omaggio alla tradizione, lavarsi l’anima e mettersi in pace con la Madonna e con se stessi prima di concedersi delizie corporali.
Ricordo perfettamente come se quei giorni non fossero mai passati, la massa di gente lungo le vie strette del quartiere, l’odore di croccanti e mandorle tostate…e poi, come d’incanto, cominciava a stuzzicare il naso quel profumo conosciuto, le frittelle della fiera!
C’era una bancarella specifica, sempre quella, dove ogni anno mia madre si fermava, scherzava e rideva con il proprietario che io, bambina, guardavo incantata: vestiva di bianco e stava davanti ad un immenso calderone pieno d’olio dove, con una maestria che a me suonava a magico, metteva e toglieva frittelle da quel liquido bollente che borbottava odori più che parole, e poi le buttava da una parte sul banco e qualcun altro le prendeva, così calde e profumate e le cospargeva di granelli di zucchero che cadevano come neve su quella terra soffice di lievito e farina.
Mi ricordo che guardavo estasiata le bolle d’aria che si formavano nella frittella quando lui buttava l’impasto nell’olio: era un brontolio odoroso, un discorso di sensazioni che a me faceva sempre inghiottire la saliva, l’acquolina mi divorava ancor prima di mettere sotto i denti quello che mi sembrava il dolce degli dei.
Ci si accontentava di piccole cose da bambini, la fiera era una festa e le frittelle un dono invitante e del quale ringraziare, ogni volta, quasi con timidezza e pudore.

E proprio ieri, sbirciando qua e là come faccio spesso nei siti di cucina, non so bene come, le ho trovate e si chiamavano proprio così, ”Le Frittelle della Fiera” !
Così, scommettendo di nuovo con me stessa, perché per me ogni nuova ricetta è una scommessa con la quale mi metto alla prova, ho deciso di provarci.
Ho messo il lievito di birra nel latte tiepido aspettando che si compiesse la magia e cominciasse a produrre bollicine da se stesso
Intanto, ho preparato la farina in un’altra terrina, ho aggiunto zucchero, un pizzico di sale e la scorza di limone grattugiata e poi ho versato il liquido incantato.
Ho mescolato insieme ed ho aggiunto, per ultimo, il burro a pezzettini.
Poi ho cominciato ad impastare, lentamente, con le mani appiccicose all’inizio e poi l’impasto, sempre più elastico, ha cominciato a staccarsi dalle dita e, come sempre, mi ha detto dice che era pronto, che potevo smettere di maltrattarlo con le mani…allora, l’ho messo in stand-by, come dicono gli illuminati!, a riposare.

Questo dell’impastare è un altro atto di magia, non so nemmeno spiegare quanto mi piace mettere le mani nella farina e muovere le dita trasformando la massa informe in una palla morbida e profumata; la farina, l’acqua e il lievito insieme, hanno un odore irriproducibile, tanto meno a parole…proverei se fossi in voi, perché, a me almeno, dà una serenità infinita!

Devono passare almeno due ore, ci vuole tempo e pazienza in questo tipo di lavori, perché l’impasto deve poter crescere e lievitare lentamente, senza fretta urbana.
Impastare ed aspettare richiede tempi antichi, segnati dalla tolleranza e dall’attesa che ormai non sono più sinonimi di niente in questo mondo che corre in un bisogno inconsistente di continue emozioni veloci.

Poi ho ripreso l’impasto tra le mani e ne ho fatto un filoncino lungo dal quale ho staccato delle piccole parti che ho trasformato in palline e di nuovo le ho coperte e le ho lasciate riposare.
Quest’ultima fase non dura più di una ventina di minuti.
Ho ripreso le palline, ho messo l’olio a scaldare e con le mani le ho schiacciate fino a renderle quasi trasparenti nel centro e più cicciottelle sui bordi.
Poi, una ad una, le ho messe nell’olio, caldo ma non bollente altrimenti si bruciano e non da tempo all’impasto compiere l’ultimo tratto di lievitazione…ecco fatto, le Frittelle della Fiera, come per magia, quasi quarant’anni dopo, in un piatto nella mia cucina, una sopra l’altra, spolverate di zucchero come allora e con il ricordo di chi non c’è più ma che continua a vivere ogni volta che tra le mani si rinnova la tradizione, suggestione seducente del passato che non muore nel presente.
Saluti e baci... 

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